Solitudine allo specchio

Solitudine allo specchio

Francesca Marra

Solitudine allo specchio

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Solitudine allo specchio. Quante volte capita di guardarci allo specchio e di non riconoscere il nostro riflesso?
«Martine aveva me e io avevo lei. Due esseri umani completamente diversi accomunati da uno strano senso di solitudine. Lei aveva bisogno di me per rimanere in forma, io di lei, per sentirmi ogni giorno impareggiabile».

Un viaggio introspettivo in cui la piccola Martine, paziente affetta da Asperger, insegnerà ad accettare queste forme di estraniamento, anche quando difronte ad uno specchio di una sala vuota d’ospedale, il corpo sembra perdere la sua forma. E così, al seguito di uno dei momenti più difficili della sua vita, il medico protagonista, Mimo, scoprirà di non essere più solo, proprio quando suo nonno salirà in cielo lasciandolo al suo destino, per sempre.


Solitudine allo specchio
Biografia di Francesca Marra

Solitudine allo specchio

Solitudine allo specchio di Francesca Marra

Capitolo uno

«Svegliati, Mimo, oggi è un giorno importante! Te l’ho detto mille volte che non devi studiare di notte, non ti basta rientrare così tardi dal lavoro?». Il mio orecchio percepì soltanto l’eco dell’ultima parola, ma fu sufficiente a farmi spalancare gli occhi in direzione della sveglia: le otto di mattina. La voce di Frankie, dal tono provvidenziale, era arrivata a salvarmi dai rimproveri che mi avrebbe urlato contro Camiller se fossi arrivato in ritardo in ospedale. Era tardi, tardissimo. Il taxi prenotato la sera precedente sarebbe arrivato tra diciassette minuti; la riunione sarebbe iniziata dopo quarantacinque circa. Quella mattina, sul tavolo delle trattative, si sarebbe giocata una partita importante; ne stavamo discutendo ormai da una settimana insieme al team di esperti. La necessità di nuove risorse e strumenti all’avanguardia per migliorare le ricerche sperimentali si scontrava con le possibilità del nostro sistema sanitario. Ma il nostro polo ospedaliero era gemellato da tre anni con quello di Parigi e questo aggancio si dimostrò essere una grande fortuna. Camiller sapeva benissimo che io venivo da quella scuola. Effettivamente, anche i colleghi spesso mi chiedevano della mia formazione in Francia; capitava di trattenerci vicino alle macchinette del caffè (quello sconosciuto, che solo il nonno aveva la fortuna di prendere al villaggio), installate nei corridoi e arrivate nella capitale grazie ai fondi del concorso vinto. Un riconoscimento importante che ci aveva garantito il titolo di migliore azienda ospedaliera togolese, con la possibilità di fare nuove assunzioni e adempiere a incarichi più importanti in sperimentazione e sviluppo nel reparto di medicina interna. Camiller non era solo il primario del reparto di psicologia clinica e psicoterapia in cui lavoravo ormai a tempo indeterminato; in lui riuscivo a vedere molto di più che un semplice uomo dai baffi lunghi e il camice bianco che odorava di tabacco. «La barba lunga trattiene i germi e mi farebbe ammalare, i baffi sono sinonimo di saggezza» mi aveva risposto quando gli avevo chiesto il motivo di quella scelta che trovavo buffa. Poi ero rimasto a osservare il suo indice che ruotava intorno a quei peli grigi e il suo sguardo colmo di dissenso: era il suo rituale personale, quasi volesse dimostrare la regola necessaria per vincere un gioco.

La verità era un’altra: dai tempi adolescenziali amava imitare Salvador Dalí, il pittore, e in reparto lo sapevano tutti. Spesso chiacchieravamo in cortile dopo pranzo, quando gli orari ci facevano incontrare e lui, stanco del lavoro, mi ripeteva che forse avrebbe dovuto fare l’artista: la vita alla gente l’avrebbe salvata lo stesso, utilizzando le tempere colorate e non quelle amare medicine. Era un uomo distinto e rimaneva piuttosto riservato ma allo stesso tempo era un vero portento in tutti i casi che passavano dalle sue mani. Avevo avuto la fortuna di conoscere la sua famiglia durante l’ultima cena del reparto. Erike, suo fratello minore, mi aveva ricordato subito Alan: indossava lo stesso sorriso ingenuo ma dalla forza unica e coinvolgente. Tra noi era partito un abbraccio inaspettato e sincero, mi ero commosso a lungo ed ero tornato a salutarlo due volte prima di lasciare la sala del ristorante. Poi mi ero fermato a pensare al potere e all’impatto che i ricordi hanno sul presente, soprattutto quando si fa più fatica a staccarsene. Erano passati quindici anni da quando Alan non c’era più, eppure continuavo a cercarlo ovunque e bastava un incrocio di sguardi per tornare da lui.


Solitudine allo specchio


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Anna Maria Zavatti

Ma eravamo felici

Banchi di nebbia in una scuola degli anni Sessanta vicino al Po

IN PUBBLICAZIONE IL 13 dicembre 2023

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Ma eravamo felici. Un commovente viaggio nel passato, un ritratto intimo della vita scolastica nella piccola comunità mantovana di Borgofranco sul Po.
Attraverso gli occhi di un’ex allieva, l’Autrice rivela le sfumature del quotidiano tra banchi di scuola, maestri eccentrici e amicizie indelebili. Dal dolce profumo di caffè a casa ai tentativi di sfuggire agli scapaccioni imminenti, il libro intreccia momenti di gioia, nostalgia e crescita.
Le maestre, i bidelli e don Bruno emergono come figure fondamentali, costruttori di esperienze che plasmano la vita degli studenti. Tra risate, piccoli dispetti e lezioni di vita questa storia tocca il cuore celebrando l’importanza di quei momenti formativi che rimangono impressi per sempre nella memoria.


Ma eravamo felici
Biografia di Anna Maria Zavatti

Ma eravamo felici - copertina

Ma eravamo felici di Anna Maria Zavatti

Preambolo

La scuola ha sempre segnato la mia vita. Non ero ancora nata e già andavo in Vespa da Moglia a Porcara (frazione di Sermide, in provincia di Mantova) a scuola con mia mamma, la maestra Ughetta Boselli. Sarà stato anche a causa degli sballottamenti su quelle strade a buche, ghiaia e pozzanghere, in balia delle intemperie, che sono nata un po’ prima del previsto, a gennaio, fragilina e con gli occhi storti.
Pochi anni dopo ho frequentato da clandestina la scuola elementare di Bonizzo (allora frazione di Borgofranco sul Po, sempre in provincia di Mantova), dove mia mamma aveva ottenuto il trasferimento. Ricordo la nonna Egle che intorno all’ora di ricreazione mi portava con sé a prendere il pane da Bassi, il negozio di alimentari in piazza. Era primavera inoltrata, dalla porta a vetri laterale del negozio scorgevo gli scolari giocare in cortile e mia mamma con la vestaglia nera; sento ancora il profumo dei tigli e l’attrazione inebriante di quel tessuto che al sole sapeva di inchiostro nero e scottava. Quando passavo a salutarla lei mi prendeva in braccio e io volevo entrare a scuola con gli altri bimbi.
Un giorno, avrò avuto quattro anni, a fine ricreazione ho seguito i bambini, sono entrata in classe e mi sono diretta verso un banco vuoto con l’intento di sedermi e rimanere lì. Mia mamma ha chiesto alla nonna Egle di aspettarmi perché pensava che mi sarei stufata in fretta. Invece io volevo restare, quindi infine se n’è andata la nonna brontolando che doveva far da mangiare e aveva solo perso tempo. La mamma, rassegnata, mi ha pregato di non disturbare e mi ha dato un quaderno e una matita.
Ero euforica, la chiamavo maestra come facevano tutti gli altri, cercavo di copiare dalla lavagna facendo dei segni sulla carta anche se non sapevo scrivere e alzavo la mano per rispondere a domande che non capivo. Io che facevo ancora l’asilo, su quei banchi mi sentivo un gigante.
Sono tornata altre volte prima della fine dell’anno scolastico. In verità avrei dovuto frequentare l’asilo a Borgofranco sul Po ma non mi piaceva, quella era roba da piccoli. Là non si scriveva e la maestra Ilaria ci faceva fare una cosa che mi sembrava avvilente: dovevamo mettere le dita sulle spalle, fare le alucce e ruotare all’indietro i gomiti. Io mi vergognavo come una ladra di quelle alucce e mi guardavo intorno per vedere se gli altri si sentivano ugualmente imbarazzati, ma sembrava di no. Anche Giovanni, Paolo e Claudio – i più grandi – eseguivano tranquillamente.
All’epoca ero spesso malaticcia: fino ai cinque anni le tonsille mi hanno dato da fare e dovendo stare in casa mi arrangiavo a passare il tempo. Siccome non c’era nessuna programmazione in tv a tenermi compagnia nelle lunghe mattinate di mezza febbre (solo la nonna o il nonno, o il papà quando non era a lavorare), i libri di scuola della mamma erano il mio passatempo; tanto che ne ho logorato uno, dotato di alfabetiere, a forza di sfogliarlo.
Avevo anche una lavagnetta nera con piccoli binari in cui si inserivano delle lettere mobili gialle, in corsivo. Componevo e chiedevo: «Adesso cos’ho scritto?». Quando l’ordine casuale formava una parola, provavo a copiare. Ma non volevo solo copiare, volevo scrivere. Ho provato a scrivere su tutto. Trovo ancora i miei zig-zag sul retro di vecchie fotografie, dove credevo di spiegare chi c’era nella foto, dov’era e cosa stava facendo. Finché un giorno ho tracciato un cerchietto, alcuni zig-zag su e giù, un altro cerchietto e continuavo a ripetere la sequenza.
«Cos’è questo?!» mi ha chiesto la mamma in allarme.
«È Anna, è! Questo è Anna!».
Avevo scritto ovunque il mio nome in corsivo.
Non ho mai frequentato la prima elementare perché ho cominciato direttamente in seconda, alla scuola di Borgofranco sul Po. Era il 1967, avevo sei anni e in classe eravamo in otto. La maestra si chiamava Italina Oliani, vedova Rampani.
E qui comincia il libro.


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Marcel Le Blanc

La donna ha dato inizio al baratto

Un sistema politicamente scorretto, eticamente corrotto

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La donna ha dato inizio al baratto. Un salto a ritroso nella storia per chiarire l’invenzione del baratto, la nascita della prima teoria economica, la creazione del denaro e quale ruolo abbia avuto la donna in tutto questo.

«Marcel è indubbiamente preparato in materia, ma è un grandissimo adulteratore delle materie economiche e storiche, che manipola e modella secondo una sua visione del mondo. Preciso inoltre che nella sua visione non vi è nulla di attendibile in merito all’argomento, ma solo una illimitata capacità di creare neologismi».

prof.ssa Gemma

«L’Autore, confortato dalle letture di opere di filosofi ed economisti, con dovizia di citazioni e riferimenti letterari ripercorre passo dopo passo la trasformazione del baratto in qualche cosa di diabolico. La domanda è: chi ha dato inizio a tutto questo? La risposta si trova nella famosa frase di Alexandre Dumas: “cherchez la femme”.

Graziano Portesan

La donna ha dato inizio al baratto
Biografia di Marcel Le Blanc

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La donna ha dato inizio al baratto di Marcel Le Blanc

Nota dell’Autore

Cari amici uomini, il vostro mentore è tornato. Devo dare ragione alla mia collega e poco amica Maria, quando avvertì il sottoscritto che l’argomento donne non sarebbe bastato per un solo libro: aveva ragione. Quindi care donnine benvenute nel terzo pamphlet della saga, dopo La donna vista attraverso la lente dell’uomo (2019) e La donna risorsa umana del capitalismo (2022) ecco un nuovo scritto su un tema economico: il baratto.
Chi di voi ha imparato a leggere fra le righe dei mei scritti è consapevole della radice ontologica del pensiero marcellien: potere all’uomo.
Malauguratamente le voci che si levano a critica verso la donna non contestano mai i principi universali dei loro valori; al contrario gli uomini nutrono l’inconscio desiderio di accettarli. Leó Szilárd sintetizza al meglio il pensiero, sostenendo che «Siamo liberi di dire ciò che pensiamo per il semplice fatto che non pensiamo mai quello che non siamo liberi di dire». Ragion per cui non siamo considerati una minaccia dalle donne.
Come per Michelangelo la scultura era un assalto alla pietra che doveva essere addomesticata e sottomessa alla volontà dell’artista, i miei scritti sono lo scalpello nelle mani dello scultore; sta a voi cari amici uomini saperlo utilizzare. Recitava il grande attore Massimo Troisi: «Sono responsabile di ciò che dico, non di cosa capite».
Se un libro viene criticato, la prima domanda che si pone lo scrittore è dove ha sbagliato. In effetti mi interrogo su eventuali errori e nel limite del possibile cerco di porre rimedio. Ma quando le critiche si trasformano in azioni che a volte risultano violente si ha l’impressione di aver intrapreso la strada giusta. Dalle reazioni a volte anche intimidatorie si comprende infatti che sono stati toccati nervi sensibili.
Anzitutto una precisazione. Come anticipato nel primo libro, è evidente che la donna è riuscita a calpestarsi ambedue i piedi contemporaneamente; è proprio su questo argomento che cerco, non di correggere, ma di intensificare l’attività. Ancora una volta le critiche non hanno fatto altro che farmi comprendere di aver trascurato particolari quasi impercettibili che erano passati inosservati. Sulla causa promossa contro di me si apre una luce: in eventi di portata universale, per arrivare alla verità è necessario avanzare ipotesi fondate.
Ancora una volta grazie. Un caloroso abbraccio care donne per avermi dato spunto per un nuovo libro, vi amo!


La donna ha dato inizio al baratto


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Germana Zuccatti

Quattro donne oltre l’apparenza

Far star bene, fa star bene

IN PUBBLICAZIONE IL 13 dicembre 2023

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Quattro donne oltre l’apparenza. In questo coinvolgente romanzo l’amicizia tra quattro bambine si evolve attraverso gli anni trasformandosi in una connessione indissolubile tra donne. Lucia, Liliana, Annamaria e Barbara: quattro vite che si intrecciano in un mosaico di speranze e delusioni. Accanto a loro c’è l’amico di sempre Sandro, abile nell’aggiustare le parti rotte dell’anima.
Ogni donna ha una storia unica, spesso intrigante e avvincente, mai banale. Alcune hanno conosciuto il dolore e affrontato ostacoli ma queste esperienze le hanno rafforzate permettendo loro di rinascere e cogliere nuove opportunità. Alcune custodiscono gelosamente le proprie battaglie interiori.
Questo romanzo ci ricorda che ognuno di noi ha sofferto e siamo ciò che siamo grazie alle nostre esperienze. Commettere errori è umano, così come perdonare: un gesto prezioso da riservare a chi amiamo di più.
Una storia che ci invita a dare respiro alle leggerezze della vita e a intraprendere il nostro viaggio silenzioso.


Biografia di Germana Zuccatti

Quattro donne oltre l'apparenza - Copertina

Quattro donne oltre l’apparenza di Germana Zuccatti

Prefazione

Il tempo corre troppo veloce, come pure il susseguirsi degli avvenimenti. Rincorro i pensieri brevi che riaffiorano alla mente, queste insorgenze mi fanno rivivere con gioia gli anni della giovinezza, emozioni che colgo senza dissiparle, perle che riempiono di leggerezza la mia vita ormai adulta.
Gli anni scorrono, il tempo corre più veloce di me, ma l’animo è rimasto giovane. Ascolterò ciò che i ricordi mi racconteranno cercando di trattenerli.
Vi è un particolare spazio di tempo che con chiarezza mi regala la memoria, un flashback mi catapulta nel passato: sono spettatrice in una vera e propria retrospettiva, una scena teatrale, e comodamente seduta in prima fila osservo con attenzione la mia commedia dal sapore nostalgico. Sul palcoscenico una giovane donna interpreta un ruolo: è la me stessa di ieri. Un preciso lasso di tempo in cui la vita sentimentale non risulta certamente invidiabile, un periodo dai toni alquanto grigi. Da poco ho troncato una relazione sentimentale banale, l’aria frizzante e vivace che avrei voluto respirare in quel rapporto la potevo solo sognare, il cuore non batteva forte quando aspettavo l’ora dell’appuntamento come succede quando si è innamorate. Non eravamo adatti per camminare insieme, si capiva lontano chilometri e sicuramente la decisione di lasciar andare per altri lidi quell’ipotetico fidanzato è stata giusta, ma sono pervasa dal nervosismo. Inoltre a rendere più pesante la situazione c’è stato qualche piccolo intoppo sul lavoro; cose da poco ma messe in fila mi fanno sentire scordata e di malumore.
Credevo che una bella dormita avrebbe cambiato il mio stato d’animo; evidentemente avevo calcolato male, la nottata seguente non è bastata per riportarmi la consueta spensieratezza. Inoltre, contrariamente alle aspettative, è anche peggio! Stamattina sono di pessimo umore, di sicuro sono scesa dal letto con il piede sbagliato. E poi il tempo bizzarro contribuisce ad accrescere la malinconia.
Sono meteoropatica, mi capita di alzarmi con la luna storta maldisposta verso tutto con un diavolo per capello ogni qualvolta le condizioni meteo sono inclementi. Forse se prima di coricarmi avessi sorseggiato una tisana, una camomilla, ma che dico almeno un litro di artemisia probabilmente mi sarei scaricata dalla negatività che m’invadeva lo spirito. Ma no, ancora non sarebbe bastato!
Ho bisogno di svagarmi, altrimenti rimugino rattristandomi anche di più. Per contrastare il disagio ho già sperimentato alcune terapie personali, per esempio fare una bella camminata all’aria aperta respirando a pieni polmoni, magari nel bosco. In ogni caso devo uscire di casa, sarò fortunata se incontro qualcuno per far chiacchiere scambiando opinioni. Un’altra opzione che trovo gratificante potrebbe essere entrare in qualche negozio, stando attenta però a non lasciarmi trasportare dalla foga per fare incauti acquisti: in queste fasi lunatiche mi lascio andare allo shopping per il solo gusto di comprare trovandomi in seguito cose futili e paccottiglie inservibili che in altri momenti mai avrei desiderato.
Ultimamente ho sviluppato la passione del collezionismo. Quando ho l’opportunità e il tempo a disposizione mi reco nei vari mercatini dell’antiquariato, che come una calamita mi attirano. È affascinante rovistare tra i tanti oggetti usati, cercando con attenzione trovo fra mille cianfrusaglie qualcosa di interessante per arricchire le mie nuove collezioni.
È stato proprio in un giorno di malumore che una mattina uggiosa d’autunno, camminando nella via ben allestita di tante bancarelle di antiquariato, che un quadro dipinto a olio ha catturato il mio sguardo: era ritratta una donna dal viso sereno, la fronte ampia, il naso diritto che seguiva l’armonia della bocca sul mento rotondo e con le labbra carnose e sensuali. È stato quasi un dovere comprare il quadro. L’artista risultava sconosciuto e il prezzo mi si confaceva: di basilare importanza date le mie scarse finanze. Lo volevo assolutamente possedere sebbene la cornice fosse di pessima fattura, ma a ciò avrei rimediato in seguito, non volevo farmi sfuggire l’occasione.
L’ho acquistato tenendolo poi gelosamente nascosto agli occhi estranei. Ho subito trovato la sua giusta collocazione in camera da letto, la misura era perfetta per coprire i buchi dei tanti chiodi che avevo piantato nel muro con insuccesso, viste le mie scarse abilità con il martello. Stava proprio bene di fronte al letto, lo ammiravo spesso per la bellezza artistica nella composizione armoniosa e delicata dei colori, anche la cornice ora che avevo cercato di ripulirla non stonava.
L’artista aveva realizzato l’iperrealistico quadro riuscendo con maestria a trasmettere i propri sentimenti, in particolar modo aveva curato lo sguardo che appariva misterioso e lasciava presagire segreti, arcani che avrei desiderato carpire. La mia fertile fantasia immaginava il suo mondo e mi intrigava capire a chi quella donna stava rivolgendo il pensiero mentre il geniale pittore la ritraeva. Non aveva tratteggiato un’icona, in genere rivolta non a un’unica persona ma al mondo intero (una divinità ama tutti i suoi figli e non una in particolare); il dipinto al contrario trasmetteva direttamente le emozioni del pittore, gli occhi del soggetto mi seguivano negli spostamenti, o almeno avevo tale percezione.
All’impulso di possedere il quadro non sono mai riuscita a dare una risposta, ma sono convinta che la forte attrazione che ho provato sin da subito per l’opera riveli qualcosa di me, qualcosa che ancora non so interpretare. La suggestiva immagine mi lascia cogliere con l’intensità di un lampo idee e fantasie del mondo femminile, fornendomi qualche spunto per descrivere storie di donne un poco vere ed un poco inventate. Frammenti di vita al femminile, atteggiamenti, sfumature del non detto. Cerco di estrapolare da questo sguardo racconti di storie profonde, interessanti e stimolanti.
Ogni donna vive una propria storia personale che può rivelarsi intrigante, avvincente, raramente banale, soprattutto se vissuta pienamente con serietà e sincerità. Alcune esistenze hanno conosciuto il dolore, vissuto momenti tristi, affrontato ostacoli, si sono viste crollare il mondo addosso trovandosi deluse nelle speranze. Per dare un senso alla vita e non morire dentro i caratteri più forti cercano nuovi stimoli positivi per avere la forza di andare avanti superando le difficoltà che talvolta si presentano devastanti. Le esperienze negative in certi casi contribuiscono a rafforzare la tempra, infondono la forza di rinascere dando un senso alla vita e permettono di cogliere nuove opportunità e sfide. Le persone riservate, magari timide, discrete e portate a tenersi tutto dentro – le gioie e soprattutto i dolori – vivono le esperienze negative custodendole gelosamente nell’intimità personale e non permettendo a nessuno di frugare per carpire i pensieri.
È questa la categoria di persone che più mi intriga, cerco di estrapolare dal loro animo esperienze di vita curiose, chissà che mi possano regalare la trama per descrivere storie sensibili e viverle come in un in un viaggio dove incontrare di tutto: bene e male. Insomma storie intime per emozionare.
Qualcuna delle storie di donne descritta nel romanzo è nata dalla mia curiosità. Involontariamente un’estate sotto il sole ho avuto modo di ascoltare le rivelazioni di amiche che si confidavano. Ho immaginato che fosse un’abitudine per loro ritrovarsi per scambiare vicendevolmente opinioni, parlavano sommessamente, si sentivano libere, non disturbate e inascoltate; non avevano capito che qualcuno – non avendo nulla da fare, stesa sul lettino poco distante con gli occhi chiusi e le orecchie attente – stava origliando: ero io che mi divertivo godendo della conversazione condita da confessioni intime, gioiose e buffe. Una complice ora del Garda, una dolce brezza capricciosa e ribelle che riemerge dal torpore invernale anticipando premesse di frescura per i pomeriggi di canicola, accarezzava il mio corpo trascinando con sé le loro parole, che cercavo di annotare nella mente. Quei frammenti regalati sono stati per me d’ispirazione per scrivere una storia. Con la fantasia ho cercato di contestualizzare dando veridicità, romanzando una narrazione per tessere spurie, dipanando le loro confidenze e dilatando la scrittura attraverso aneddoti umoristici per raccontare emozioni e delusioni.
È stimolante per me descrivere passioni e sentimenti forti, i sogni che adornano i racconti delle donne. Il tempo della vita del mondo femminile è fatto di frequentazioni, di amicizie, di conversazioni e legami ma anche di malinconia e spesso di matrimoni non sempre felici, di rapporti inquieti, di relazioni con altre donne. Per molte inoltre la vita spesso è composta da insicurezze e forti contraddizioni. Siamo tutti diversi e unici nelle nostre diversità, ma nell’amicizia c’è un filo sottile che ci lega. Nella vita niente è come sembra.


Quattro donne oltre l’apparenza


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Clementina Dromì

Di terra e di cielo

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Di terra e di cielo. Questa silloge offre un prezioso momento di sosta e di fuga dal tran tran quotidiano, ci porta in un mondo incantevole di leggerezza e sorrisi. Qui il dolore non scompare per magia, perché la vita è una mescolanza di giorni di pioggia e di sole, di voglia di urlare e balli improvvisati.
La sua narrazione ci avvolge in un’atmosfera unica dove la felicità è paragonata a un seme che cresce lentamente, giorno dopo giorno. Ci ricorda che essere felici non significa essere sempre perfetti o privi di preoccupazioni, ma è necessario imparare a trovare gioia e gratitudine nelle piccole cose che rendono ogni momento speciale.


Di terra e di cielo
Biografia di Clementina Dromì

Di terra e di cielo - copertina

Di terra e di cielo di Clementina Dromì

Prologo

Arrivata all’ultima riga
rimani sospesa
ad assaporare la storia,
prigioniera ancora
di tutte le parole
che inchiostrano le pagine.
È ritornare da un viaggio,
ripercorrere nella memoria
ogni istante,
ritrovare ogni risata
ed ogni emozione,
restare immobile
ad occhi chiusi,
la mano sulla quarta di copertina,
quasi ad assorbirne l’essenza.
Un colpo di tosse
ti riporta alla tazza ormai vuota,
alla sigaretta dimenticata nel posacenere.
Riponi il libro in mezzo agli altri,
sfiori con la mano
leggera
le rilegature e il dorso
e ti lasci catturare da altre storie.
Il divano accoglie
il corpo raggomitolato,
il camino trasforma in braci
i grossi ciocchi di legna
e la pioggia leggera sul tetto
fa da sottofondo armonico:
comincia un altro viaggio.


Di terra e di cielo


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Davide Varetto

La fine era solo l’inizio

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La fine era solo l’inizio. Questa silloge poetica affronta con straordinaria profondità e sensibilità il tema delle tragedie che, come catene invisibili, legano il nostro presente al passato trasformando la vita stessa in una malattia che consuma corpo, mente e anima. Attraverso la potenza della poesia l’Autore disintegra l’io, abbraccia il divenire delle proprie contraddizioni interne ed esalta l’abbandono all’estasi, in questa eterna perdizione esistenziale.
Un esordio drammatico e vulnerabile, una visione unica e toccante della condizione umana.

XXXII. Peonia
Sei morta nell’alidore
del tempo apatico che
ti ha sopraffatto,
in quello stridore afono
cadono i tuoi capelli rosa,
inibizione del tuo canto,
annaffierò la tua
testa calva con il mio pianto


La fine era solo l'inizio
Biografia di Davide Varetto

La fine era solo l'inizio copertina

La fine era solo l’inizio di Davide Varetto

Nota dell’Autore

Alcuni eventi tragici che investono le nostre vite hanno il potere di incatenare il presente e il futuro al nostro passato. Possono rendere la vita stessa una malattia che ci logora giorno per giorno fino a far diventare il nostro corpo, la nostra mente e la nostra anima carne consunta.
È stata la poesia a scardinare la porta della mia anima, che gridava aiuto, e a trasformare questo dolore in materia viva attraverso componimenti in grado di insediarsi nelle viscere umane e di indagare la relazione tra l’individuo e il cosmo.
In questa raccolta poetica i lettori troveranno la demolizione di ogni pretesa di incasellamento identitario, la frammentazione dell’io, l’abbandono al divenire delle nostre contraddizioni interne, l’abbandono ai corpi, all’estasi. Ciò che resta di un quadro incorniciato dall’eterna perdizione della misera condizione umana.


La fine era solo l’inizio


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Maria Galfano

Maternalis

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Maternalis offre un’esperienza letteraria toccante che esplora il potere della maternità. Attraverso i suggestivi dialoghi tra sant’Anna e la Madonna emergono le complesse sfumature dell’amore materno.
Un intimo sguardo nell’animo di due donne che si ritrovano in età adulta unendosi in una connessione spirituale al di là del tempo. Sant’Anna, simbolo di tutte le madri che hanno donato amore senza necessariamente partorire, offre una prospettiva unica su ciò che significa nutrire e crescere un figlio generato da altre donne; mentre la Madonna incarna l’essenza della maternità biologica. L’Autrice esplora con profonda sensibilità questo speciale rapporto madre-figlia scrivendo pagine di una poesia struggente.
In Maternalis ogni donna madre troverà un riflesso delle proprie sfide e gioie. Ispira e commuove questo straordinario racconto di maternità universale che tocca il cuore di tutte le donne del mondo.


Maternalis - copertina promozione

Maternalis - copertina

Maternalis di Maria Galfano

I.

Un sentimento intramontabile che splende lontano dalle nubi e che si riposa in cima a un monte ma non si nasconde si svela ogni giorno, cresce, s’irradia. Il miracolo di questo sterile corpo. L’arcobaleno dei miei giorni più belli, il sorriso che sboccia sul mio viso e le mie mani che si disfano dalle rughe quando toccano le tue.
Mi mortifica aver detestato il mio corpo, averlo rifiutato, perfino odiato; avrei dovuto averne cura, ha sempre protetto la mia anima da colpi feroci e dolori intensi. Lo guardo ora che è autunno e ne sono grata, ne riconosco la grandezza. Mi ha concesso lunghi passi che mi hanno avvicinata al giorno in cui ti ho partorita: un corpo così forte da poter contenere tutto l’amore del mondo, del mio mondo.
Ho memoria dei giorni in cui mi sferravo violenti pugni sul ventre perché si rifiutava di germogliare. Ho pianto sulle mie gambe guardando il cielo con le mani giunte: non sentivo crescere la vita dentro di me. Ma era la mia vita che doveva ancora crescere, dovevo prepararmi a questo incontro.
Ero confusa, come potevo sperare di contenere una vita mentre io ero morta? L’universo guardava e gli angeli pregavano per me, e quando ho apprezzato ciò che avevo sei arrivata tu.
Come un dono.
Ho strappato i capelli quando mi sentivo avvampare d’ira per la vergogna di non poter concepire. Le mie lacrime erano pioggia in un triste inverno. I miei occhi ghiacciai sciolti. Il mio dolore lava che mi consumava.
Giornate interminabili si diluivano in lunghi silenzi. Lo sguardo fisso sull’orizzonte. Non vedevo la bellezza degli alberi, non sentivo di giorno il canto delle cicale che annunciava la primavera e di notte la melodia infinita dei grilli. Quanta gioia mi son persa inutilmente.
Mentre strisciavo nel sangue che il mio corpo liberava pensavo che anche i vermi si riproducono.
L’umiliazione che sentivo degli sguardi femminili che mi sfioravano; occhi di donne gravide che cercavano i miei per stabilire la loro superiorità, urla di partorienti che da tutto il mondo arrivavano alle mie orecchie.
Donne che concepivano figli a ogni luna e mettevano alla luce i loro tesori, mentre gli occhi di questa donna sterile osservavano increduli.
Le mie mani stringevano con forza rancore e lamenti.
Ho provato vergogna per l’uomo che mi amava: lui non era padre, poiché io non ero madre.
Mio marito, avvilito e smarrito, è uscito di casa per camminare verso la sua montagna. Era un romantico, diceva che sulla cima dei monti si è più vicini a Dio. Rimaneva ad ascoltare il vento, a leggere nelle nuvole i messaggi che gli inviavano angeli dorati.
Ma la vita continuava a non trovare strada nei nostri corpi, si arrendeva nei labirinti, forse sapeva già che il mondo è un posto inospitale, crudele.
Mi sentivo mortificata per abitare in un corpo inadatto, da me maledetto. Ero io che mi torturavo e mi straziavo. Perché questa punizione? Perché Dio mi avrebbe donato l’amore di un uomo per poi privarmi della gioia più sublime, fino a farmi desiderare la morte? Ecco cosa mi chiedevo ogni giorno. Ma non era di certo Dio, era la limitatezza del mio spirito: avevo costruito da sola la miseria in cui vivevo.
Sterili e ormai anziani, come alberi secchi che non germogliano, pronti a essere estirpati da questo terreno. Considerati maledetti dal popolo per non aver concepito. Ho invidiato la gioventù delle altre donne, ignorando che anche loro portavano la propria croce. Alcune erano state deturpate, altre non avevano portato a termine la maternità per volontà o perché la natura aveva deciso così. Il loro dolore aveva un peso differente, chissà quanto avevano patito coloro che dopo aver perduto ciò che di più bello avessero potuto ricevere si erano poi pentite. Come si torna indietro, come si cancella una tale colpa?


Maternalis


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La Vera Leila

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Leila Cattalini

La Vera Leila

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La Vera Leila. Mi chiamo Leila, in arabo “scura come la notte”, e ho un sole tatuato in fronte per dare energia positiva a me stessa e agli altri. 
Il mio mostro si chiama sclerosi multipla, mi tormenta da anni. In questa mia autobiografia racconto della mia famiglia, profughi istriani giunti dalla Dalmazia a Mantova nel 1946, della malattia che mi ha colpito sin da bambina e di quanto sia stato difficile per una donna come me trovare una serenità sentimentale e professionale, oltre che fisica.
In queste mie brevi note racconto inoltre con ironia alcuni aneddoti a cui ho assistito su luoghi conosciuti e persone note a Mantova, città che confonde i vizi con le virtù
In particolare negli ultimi anni ho avuto esperienze che mi hanno insegnato ad apprezzare la vita, ringraziare per essere viva, per essere qui ora e sperare in un futuro migliore.

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Leila, il cui nome in arabo significa “scura come la notte”, ha un sole tatuato sulla fronte, un simbolo che emana energia positiva per se stessa e gli altri. La sua autobiografia è un intreccio tra la sua vita e la presenza costante della sclerosi multipla, un “mostro” che ha affrontato per molti anni. Nel racconto delle sue esperienze, emerge anche la storia della sua famiglia: profughi istriani che nel 1946 hanno raggiunto Mantova dalla Dalmazia.

Fin dall’infanzia, Leila è stata afflitta dalla malattia, la sclerosi multipla, e nel corso del tempo ha sperimentato le sfide sia fisiche che emotive. Nel corso del libro, emerge il ritratto di una donna alla ricerca della serenità, sia nel campo sentimentale che professionale, mentre affronta le sfide imposte dalla sua condizione.

Attraverso le pagine del suo racconto emergono anche aneddoti ironici che ha osservato in luoghi ben noti e con figure famose di Mantova. Questa città sembra a volte mescolare virtù e vizi in modo ambiguo. Negli ultimi anni Leila ha accumulato esperienze significative che le hanno insegnato a valorizzare ogni aspetto della vita, a riconoscere la gratitudine per l’opportunità di essere viva e a mantenere la speranza in un futuro più luminoso.


La Vera Leila - copertina

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La Vera Leila di Leila Cattalini

Prologo. Le origini di un nome

Questo mio nuovo libro riprende la storia mia e della mia famiglia ma descrive in particolare gli ultimi anni, durante i quali ho avuto esperienze negative ma anche molto positive che mi hanno insegnato soprattutto ad apprezzare la vita, ringraziare per essere viva, per essere qui ora e sperare in un futuro migliore.
L’analisi della mia storia rispecchia perfettamente il pensiero della dottoressa Anne Schützenberger, cioè la teoria della sindrome degli antenati. Sostiene infatti che esiste per ciascuno un passaggio involontario di eventi non risolti da una generazione all’altra: secondo lei i posteri proseguirebbero ciò che gli avi non hanno completato; ciò rappresenterebbe un debito nei confronti dei nostri antenati. In pratica non siamo psicologicamente liberi come crediamo restando prigionieri del passato. Questo chiarisce alcune delle situazioni a cui non sappiamo dare spiegazione.
Se è vero ciò che sostiene Sabrina Gervino nel suo libro sulle costellazioni familiari i nomi e i cognomi sono importanti in psicogenealogia per l’esame dell’Albero genealogico, ed elaborati e integrati danno importanti notizie sui segreti di famiglia e sulle imposizioni famigliari. Sia i cognomi che i nomi sono significativi e possono aiutarci a comprendere i traumi del passato. Se una donna che si chiama di cognome Paoli si unisce con un uomo che si chiama Paolo, o una donna che si chiama di cognome Bruzzone sposa un uomo che si chiama Bruzzo, dobbiamo pensare al Complesso di Edipo.

È un concetto della teoria psicoanalitica che descrive come il bambino nella normale fase evolutiva matura l’identificazione con il genitore del proprio sesso e il desiderio nei confronti del genitore del sesso opposto. Tale desiderio, se i genitori non colpevolizzano il bambino, viene superato e il bambino può proseguire le sue fasi evolutive.

(Cfr. S. Gervino, La genealogia che libera).

Le donne sopra citate hanno probabilmente un Edipo ancora aperto. Nei casi come questo un atto liberatorio sana l’Albero e affranca i discendenti. Tale situazione è frequente e un’analisi dell’Albero può valere più di anni di terapia.
Inoltre Edipo può far intuire segreti nascosti. Ribadisco che i dati si devono incrociare, ma fanno riflettere. Maria Montessori per esempio chiamò il figlio Mario e lo mise in un istituto: interessante per lei che era un’educatrice e una pedagogista.
Il mio nome, Leila, è di origine araba e deriva da un’antichissima leggenda. Il suo significato è letteralmente notte e viene a volte interpretato “scura come la notte”. Quindi un nome dolce, romantico e principesco per una bambina altrettanto dolce e bellissima. Come in Guerre stellari, Leila sarà sempre una principessa combattiva, umile e leale!


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Il soffitto astronomico di Casa Provenzali

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Sandro Zannarini

Il soffitto astronomico di Casa Provenzali

Un codice celeste del Rinascimento

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Il soffitto astronomico di Casa Provenzali. Il soffitto astronomico di Casa Provenzali, riemerso nel 2020 e restaurato nel 2021, si può ammirare a Cento, Ferrara, vicino a Corso del Guercino. L’edificio rinascimentale custodisce tesori astrologici, letterari e mitologici.

L’Autore attraverso l’analisi delle costellazioni offre una lettura inedita, accessibile e affascinante svelando i segreti celati nella rappresentazione astrale. Le illustrazioni xilografiche di Igino, del I secolo d.C., ne arricchiscono l’interpretazione iconografica.

«Il soffitto ligneo è una fedele rappresentazione del Poeticon Astronomicon di Igino, il progettista possiede grandi competenze in campo astronomico».

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Il soffitto astronomico di Casa Provenzali, riscoperto nel 2020 e magnificamente restaurato nel 2021, si presenta come un vero e proprio gioiello rinascimentale situato a Cento, nella pittoresca città di Ferrara. Un autentico scrigno di tesori astrologici, letterari e mitologici che l’autore, Sandro Zannarini, svela con passione e competenza in questa affascinante opera.

Attraverso una meticolosa analisi delle costellazioni e dei loro significati simbolici, l’autore ci conduce in un viaggio emozionante attraverso le stelle e le loro connessioni con la mitologia, la letteratura e l’arte.
L’approccio accessibile e coinvolgente di Zannarini rende questa lettura adatta sia agli appassionati di astronomia che a coloro che desiderano scoprire le profonde connessioni tra il cielo stellato e la cultura umana.

Inoltre l’inclusione di illustrazioni xilografiche tratte dal Poeticon Astronomicon di Igino, datate al I secolo d.C., aggiunge un ulteriore livello di profondità all’interpretazione iconografica del soffitto astronomico. Tali illustrazioni storiche arricchiscono il contesto e permettono di immergersi ancor di più nella ricchezza culturale e simbolica di questa meravigliosa rappresentazione artistica.

Sandro Zannarini, laureato in Astronomia presso l’Università degli studi di Bologna, trasmette la sua passione e la sua conoscenza attraverso la didattica, essendo un insegnante di Fisica presso il Liceo delle scienze applicate di Cento di Ferrara. Il suo impegno nell’approfondire e condividere la conoscenza astrale rende questa opera una risorsa preziosa per chiunque voglia esplorare il connubio tra le stelle e la cultura umana.


Il soffitto astronomico di Casa Provenzali. Biografia di Sandro Zannarini

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Il soffitto astronomico di Casa Provenzali di Sandro Zannarini

Introduzione

Il soffitto astronomico di Casa Provenzali a Cento, riemerso dall’oblio nel 2020 e riportato al suo antico splendore in seguito al restauro effettuato nel 2021 dopo la rimozione del controsoffitto che l’ha occultato per oltre un secolo, si è dimostrato a un più attento studio un meraviglioso crogiolo di arte, astronomia e letteratura.
Limitarsi ad affermare che il soffitto ligneo raffiguri le quarantotto costellazioni tolemaiche è alquanto semplicistico e riduttivo rispetto al suo vero significato iconologico. Il ciclo pittorico di Cento si è dimostrato unico nel suo genere essendo chiaramente una rappresentazione astronomica che non ha nulla a che fare con i più importanti cicli astrologici italiani, tra i quali sicuramente il più noto è il Salone dei mesi di palazzo Schifanoia a Ferrara.
L’ideatore del ciclo pittorico
Per presentare una descrizione razionale del ciclo centese occorre fare alcune riflessioni profonde, la prima delle quali è chiedersi chi può esserne l’ideatore. Fin dal primo momento che ho visto la Sala delle costellazioni ho dubitato che l’artista o gli artisti che lo avevano raffigurato fossero anche i progettisti dell’impianto. L’ideatore, di cui ignoriamo il nome, è sicuramente un erudito, forse un docente dello studio bolognese con profonde conoscenze astronomiche; da un’ipotesi – non fondata su documenti certi – potrebbe trattarsi di Luca Gaurico lettore di astronomia dell’ateneo bolognese della prima metà del Cinquecento. L’identificazione in Luca Gaurico non è casuale ma si basa sulla considerazione che forse riveste un ruolo principale nella descrizione del soffitto astronomico, come vedremo in seguito comparandolo con l’Astronomicon di Marco Manilio del i secolo d.C. Infatti è di Gaurico una famosa orazione composta a favore dei sostenitori dell’astrologia che cita gli antichi scrittori latini come Manilio.
Le fonti bibliografiche
Una seconda domanda cui è necessario rispondere è quale sia la fonte da cui gli artisti possono aver attinto per eseguire le iconografie delle costellazioni. Le immagini delle costellazioni zodiacali sono le più conosciute e rappresentate fin dal primo Medioevo; ne sono un esempio gli affreschi nel Palazzo della Ragione di Padova attribuiti a Giotto, che all’inizio del xiv secolo decorò le volte con motivi astrologici. Parimenti conosciamo la controparte iconografica anche di qualche costellazione extrazodiacale: una delle rappresentazioni più antiche è l’Atlante Farnese, databile al ii secolo e rinvenuto alle Terme di Caracalla a Roma intorno al 1546.
Raffigurazioni di costellazioni extrazodiacali più antiche si trovano nei trattati arabi, di cui l’autore più importante è l’astronomo persiano Abd al-Rahman al Sufi, il quale nel 964 compose un saggio sulle cosiddette “stelle fisse” (Descrizione delle stelle fisse o Libro delle stelle fisse) unendo gli esaurienti cataloghi stellari di Tolomeo contenuti nell’Almagesto (pubblicato nel 150 d.C.) alle tradizionali costellazioni arabe. Ciò che non esiste ancora nel primo Rinascimento è un vademecum in cui sono rappresentate tutte le illustrazioni delle quarantotto costellazioni.
L’ultima riflessione è di carattere propriamente astronomico, poiché il susseguirsi delle costellazioni nei vari cassettoni del soffitto non rispecchia rigorosamente la loro localizzazione sulla sfera celeste e nemmeno i cicli mitologici rappresentati sono rigorosamente attinenti ai miti a loro associati. Alla luce di queste considerazioni si è reso necessario ipotizzare altre possibili fonti che non fossero rigorosamente astronomiche utilizzate dalle maestranze che lavorarono a Casa Provenzali. Tali fonti potevano essere i poemi latini di Igino e di Manilio. In particolare l’Astronomicon (come dimostrato Warburg) di Manilio fu d’ispirazione a Pellegrino Prisciani per la rappresentazione della fascia superiore del Salone dei mesi a palazzo Schifanoia contenente gli dei che sovraintendono ai segni zodiacali.
Libero dal giogo scientifico in quanto astronomo del xxi secolo, osservando il soffitto ligneo con gli occhi di un astrologo del Rinascimento mi sono reso conto di ciò che i progettisti volevano rappresentare. Le stelle al momento visibili nel soffitto astronomico di Casa Provenzali sono 601. Un primo spiraglio si è aperto quando lo studio delle astrotesie presenti nelle varie costellazioni mi ha fornito la prova che la fonte si trovava nel Poeticon Astronomicon di Igino. È proprio la descrizione minuziosa che Igino dà del numero di stelle e della loro distribuzione all’interno delle costellazioni che ha confermato la mia ipotesi. Il poema di Igino del i secolo d.C. era molto conosciuto nel Rinascimento ed era considerato il testo di astronomia che s’insegnava nel quadrivio della scolastica. Il Poeticon Astronomicon rimase nella sua forma letteraria fino al 1482, quando a Venezia il tipografo tedesco Erhard Ratdolt lo arricchì con le illustrazioni delle quarantasei costellazioni. Rispetto alle tradizionali quarantotto costellazioni tolemaiche nell’edizione del 1482 mancano le costellazioni del Cavallino e della Corona Australe, mentre la costellazione del Lupo è unita a quella del Centauro. Non sappiamo chi sia realmente l’ideatore delle illustrazioni nel Poeticon Astronomicon del 1482, però sappiamo dagli appunti di Ratdolt che nel 1476 creò una società con altri due tedeschi Bernhard Maler di Augusta – incisore e stampatore, definito pictor e conosciuto a Venezia con il nome di Bernardo il Pittore – e Peter Löslein di Langencen (attuale Langenzenn), bavarese, chiamato corrector ac socius.
Il sipario si è finalmente alzato sul soffitto astronomico di Casa Provenzali svelando non solo l’autore della meravigliosa scenografia, ma anche il suo sceneggiatore: il poeta latino Caio Julio Igino.


Il soffitto astronomico di Casa Provenzali


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Memorie di un programmatore

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Graziano Natale Portesan

Memorie di un programmatore

Dall’alluvione del Polesine alla tecnologia digitale

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Memorie di un programmatore. L’Autore narra la storia personale e collettiva della propria comunità attraversando i momenti significativi del Paese dal boom economico del dopoguerra, al periodo della contestazione, fino all’avvento dell’era informatica.
Descrive l’alluvione del Polesine, che distrugge i raccolti e genera debiti con le banche. Il dolore e la miseria dilagano e molti emigrano in cerca di una vita migliore, in Brasile o in Piemonte.
Il libro racconta anche i cambiamenti sociali e tecnologici dell’epoca come l’avvento dei dischi per conservare i dati e l’introduzione dei computer nelle aziende come la Barbero. L’Autore descrive inoltre la sua esperienza presso IBM, dove la sua capacità di programmazione viene apprezzata e utilizzata nello sviluppo di nuove applicazioni.
Sono istantanee ancora presenti nella memoria, ritratti famigliari e sociali di un eccezionale testimone della storia del Paese.

«Nel Polesine l’alluvione ha distrutto ogni possibilità di raccolto e con il passare degli anni l’unica cosa che è cresciuta sono stati i debiti con le banche. Molti polesani dicono che peggio di così non può andare e con tale convinzione emigrano con la speranza di una vita migliore.».

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Scopri la storia avvincente e toccante di Graziano Natale Portesan nel libro Memorie di un programmatore. L’Autore conduce i lettori attraverso i momenti significativi che hanno plasmato la sua comunità e l’Italia nel corso dei decenni.

Dall’epoca del boom economico del dopoguerra alla tumultuosa era della contestazione e fino all’arrivo dell’era informatica, Portesan racconta le trasformazioni sociali e tecnologiche che hanno segnato il Paese. Un evento fondamentale nella sua narrazione è l’alluvione del Polesine, che ha portato devastazione, distruzione dei raccolti e debiti con le banche. Questo evento tragico ha spinto molti a cercare una vita migliore in luoghi come il Brasile o il Piemonte.

Il libro getta uno sguardo attento anche ai cambiamenti tecnologici, come l’avvento dei dischi per la conservazione dei dati e l’introduzione dei computer nelle aziende, come nel caso della Barbero. Portesan condivide la sua esperienza presso IBM, dove la sua abilità di programmazione è stata apprezzata e utilizzata nello sviluppo di nuove applicazioni.

Attraverso le parole dell’Autore queste istantanee del passato prendono vita offrendo un quadro famigliare e sociale di un testimone straordinario della storia del nostro Paese.

Memorie di un programmatore è un’opera che cattura l’attenzione e le emozioni del lettore offrendo uno sguardo autentico e coinvolgente sulla storia e sulle esperienze di una persona straordinaria.

Lasciati trasportare in un affascinante racconto che unisce la dimensione personale all’epopea collettiva di un’intera nazione.


Memorie di un programmatore copertina

Memorie di un programmatore copertina

Memorie di un programmatore di Graziano Natale Portesan

Introduzione. Ricordo di mia madre

È il 23 dicembre, giorno del mio compleanno. Mia sorella Sandra mi chiama al cellulare non per farmi gli auguri ma per dirmi che mamma è peggiorata e chiedermi di passare a farle visita; da quando l’Alzheimer si è preso la sua mente, vive nella casa di riposo dove Sandra opera come oss, scelta praticamente obbligata per garantirle un’assistenza continua e qualificata.

Chiedo se devo attrezzarmi per trascorrere la notte con lei.

«No, sono di turno. Tu passa solo per un saluto, anche se probabilmente non se ne accorgerà nemmeno».

Salgo in auto, la casa di riposo dista quindici chilometri dalla mia e ricordo il racconto della mamma a proposito del suo secondo viaggio a San Giovanni Rotondo. È stata donatrice Avis (medaglia d’argento, mancavano poche donazioni per ottenere quella d’oro). Ha partecipato a tutte le gite dell’associazione per visitare i santuari di mezzo mondo, però padre Pio le è rimasto nel cuore. Mentre sentiva il peso degli anni, nell’ultimo incontro durante una preghiera ha chiesto come avrebbe concluso la propria vita. «Non preoccuparti, quando sarà l’ora te ne andrai con la benedizione del Signore» è stata la risposta di padre Pio.

Mi viene spontaneo chiamare don Gianni, con il quale ho un ottimo rapporto, parroco di Canale. Strani scherzi della vita: sono nato a Canale di Ceregnano a Rovigo e vivo a Canale di Cuneo, due paesi con lo stesso nome ma lontani quasi quattrocento chilometri. Gli chiedo se può dedicarmi qualche ora per far visita a mia mamma: risponde che ha tempo, posso passare in canonica a prenderlo.

Mezz’ora dopo entriamo nella camera di mia madre. Lei ci guarda entrambi e forse capisce tutto perché vedo il suo viso rilassarsi e scorgo una luce diversa nei suoi occhi. Don Gianni le impartisce la benedizione degli Olii Santi, al termine della quale mi resta la sensazione che mamma non aspetti altro. Morirà un mese dopo con il sorriso sulle labbra fra le braccia di sua figlia Sandra.

Sulla strada del ritorno don Gianni mi guarda e con un cenno d’intesa chiede: «Presidente, sarò indiscreto, ma posso chiederle alcune cose?».

«Don perché mi chiami presidente e mi dai del lei?! Non siamo mica in Consiglio. Comunque chiedi pure».

«Come presidente della casa di riposo di Canale ti firmi con il nome di Natale, mentre gli amici ti chiamano Graziano. Questa sera poi ho notato che porti lo stesso cognome di tua mamma: come mai?».

«Don è una storia lunga, ma se mi inviti in canonica per un caffè e se hai voglia di ascoltare… – poi aggiungo – E lo sai come la penso: non sono affatto ateo, ma in chiesa mi vedi poche volte. Ti devo ringraziare di cuore per ciò che stasera hai fatto per mia madre e per me. Ci vediamo alla casa di riposo per gli auguri di buon Natale». Don Gianni mi guarda, sorride, mi tende la mano e chiede: «Presidente quando mi racconta il resto?».


Memorie di un programmatore


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