William Shakespeare (1564 – 1616) è stato un drammaturgo e poeta inglese, considerato come il più importante scrittore in lingua inglese e generalmente ritenuto il più eminente drammaturgo della cultura occidentale.
È considerato il poeta più rappresentativo del popolo inglese e soprannominato il “Bardo dell’Avon”; delle sue opere ci sono pervenuti, incluse alcune collaborazioni, 37 testi teatrali, 154 sonetti e una serie di altri poemi. Le sue opere teatrali sono state tradotte in tutte le maggiori lingue del mondo e sono state inscenate più spesso di qualsiasi altra opera; inoltre è lo scrittore maggiormente citato nella storia della letteratura inglese e molte delle sue espressioni linguistiche sono entrate nell’inglese quotidiano (estratto da Wikipedia).

Novelle italiane lette da William Shakespeare
Introduzione
Le raccolte rinascimentali di novelle medievali erano pubblicate per celebrare il signore e la sua corte. Con questa finalità si intrattenevano i lettori, divertendoli con racconti di piaceri sensuali e terreni: i licenziosi toni boccacceschi in queste edizioni cinquecentesche volgevano al cinico, all’osceno; erano più cupe le scene di morte e più cocenti le passioni. A loro volta lo stile e gli aneddoti narrati nella novellistica medievale erano ispirati ai testi classici latini, in special modo alle opere di Seneca, però con una maggior propensione alla descrizione di scene di crudeltà e violenza che nei testi originali erano invece affidate al racconto dei testimoni delle vicende.
La lettura delle novelle non prevedeva profonde riflessioni morali, religiose o politiche, da cui piuttosto cercava di affrancarsi; questo espediente permetteva all’autore non tanto il disimpegno intellettuale quanto una certa ambiguità morale: le scene più scabrose venivano condannate o dileggiate, ma in ogni caso descritte. La soluzione della storia inoltre era spesso frutto del caso (Bandello chiamava le sue novelle casi) più che delle scelte dei personaggi (come avviene invece nel Decameron), di frequente poco propensi all’introspezione psicologica ma capaci di manifestare con grandi gesti le proprie emozioni. Per questi motivi le raccolte di novelle conobbero grande successo all’estero: la platealità delle azioni e delle espressioni dei personaggi narrati incontrava facilmente l’attenzione del pubblico e lo stratagemma dell’ambiguità morale dell’autore superava la censura politica.
Nonostante le continue lotte interne e la sudditanza agli eserciti stranieri, nel Cinquecento la letteratura italiana ha avuto – anche tramite questi componimenti – una predominanza culturale in Europa mai più conosciuta; diverte pensare che da allora sia così che i meno informati ci guardano dall’estero: un popolo passionale e dalla moralità ambigua.
Quando Shakespeare lesse la traduzione inglese di queste novelle volle adattarle per eseguirle a teatro. In effetti la tradizionale produzione letteraria inglese difettava di testi in prosa e la vividezza delle opere italiane ben si prestava all’adattamento teatrale, alla riscrittura in forma di dialogo e a una chiara propensione per la spettacolarità. Inoltre la capacità degli autori italiani di descrivere la vasta gamma di casi in cui si concretizzano il male e la violenza era di sicura presa sul pubblico anglosassone: numeroso proprio perché eterogeneo e trasversale alle classi sociali (a differenza dei teatri italiani, più elitari) ma con una chiara richiesta di poter essere impressionato, meravigliato, condotto alle risa o alle lacrime. Certo la morale elisabettiana non avrebbe tollerato i passaggi più degenerati ed eccessivi. Scrive così Elisabetta Menetti a proposito del saggio di Luigi Marfé sulla poetica della traduzione della novella italiana in Inghilterra:
Il tema dell’ambiguità morale degli autori italiani è centrale per capire la ricezione delle novelle più audaci e popolari nel più rigido clima inglese. La novità, in questo caso, risiede nella accertata convivenza di due tendenze contrapposte: da un lato la “italofobia” con tutto il repertorio polemico sulla degenerazione morale di certe storie italiane; e dall’altra l’“italofilia” che invitava a vedere nel modello italiano un esempio di nobiltà cortese, di modernità civile e di buoni costumi. Ma a parte questa affermazione di convivenza di due tensioni opposte, è interessante la comparazione tra la novella italiana di Bandello (1554-‘73) e la sua versione inglese ad opera di Geoffrey Fenton (Certaine Tragicall Discourses, 1567). Qui si mostrano, scrive Marfè, «le ambiguità con cui l’Inghilterra elisabettiana percepì l’altrove italiano. Per un verso […] vi immaginò la sede di una civiltà superiore. D’altra parte, vi vide il degrado morale di una società incapace di frenarsi, basata su istinti crudeli e inconfessabili», di cui l’opera di Bandello è il massimo esempio […].
[…] Nella libera riscrittura delle novelle, specialmente di quelle bandelliane, il primo scarto è l’eccesso, l’abnorme e il disonesto. Certe riconversioni moralistiche citate erano estranee all’originale ma non del tutto lontane dallo “spirito italiano”. […] Le traduzioni inglesi dimostrerebbero l’irrisolto dilemma dell’esemplarità di un racconto novellistico che presenta caratteristiche opposte al discorso morale. […] La novella italiana, scrive Marfè, ha un valore aggiunto proprio perché offre ai contemporanei «storie più vicine nel tempo, rappresentando, soprattutto nel caso di Bandello, vicende che potevano essere spacciate come reali»1.
È pur vero che da sempre il migliore stratagemma per sfuggire alle maglie della censura per gli autori di commedie e tragedie, Shakespeare fra questi, è stato quello di ambientare i luoghi della narrazione oltre i confini nazionali, più esotici, più estranei, più sicuri.
William Shakespeare non lesse Bandello in lingua originale ma attinse a testi tradotti inizialmente dall’italiano al francese e poi dal francese all’inglese. Anzitutto Bandello scelse apertamente di non utilizzare la lingua toscana, anzi non si pose affatto tale problema. Così scrive introducendo la prima parte delle Novelle:
Io non voglio dire come disse il gentile ed eloquentissimo Boccaccio, che queste mie novelle siano scritte in fiorentin volgare, perché direi manifesta bugia, non essendo io né fiorentino né toscano, ma lombardo. E se bene io non ho stile, ché il confesso, mi sono assicurato a scriver esse novelle, dandomi a credere che l’istoria e cotesta sorte di novelle possa dilettare in qualunque lingua ella sia scritta.
Matteo Bandello, che visse in Francia come vescovo di Agen (1550-’55), fu tradotto in lingua francese da numerosi autori come Francois Belleforest, Bénigne Poissenot, Verité Habanc, Jacques Yver, Pierre Boaistuau. Furono poi autori come Arthur Brooke e William Painter a leggere e tradurre queste versioni (già in parte mondate delle scene più scabrose) in lingua inglese.
Si può affermare che Matteo Bandello fu l’autore di novelle che nel Rinascimento, e nelle decadi successive, conobbe maggiore successo all’estero. Egli era assai abile nel dosare brevi istanze morali da contrapporre ai discorsi meno edificanti dei suoi personaggi; inoltre gli va riconosciuta una certa capacità di comporre racconti con toni assai realistici, tali da rendere i fatti narrati molto verosimili, credibili e quindi di maggiore effetto sui lettori.
Bandello (Alessandria, 1485 – Agen 1561) scrisse più di duecento novelle, nessuna delle quali di propria invenzione. All’epoca non esisteva la proprietà intellettuale e si pensi che financo le traduzioni inglesi a disposizione di Shakespeare erano firmate da autori inglesi che dichiaravano sfacciatamente la propria paternità sulle stesse novelle di Bandello.
Il novellatore piemontese (all’epoca, lombardo) era monaco domenicano, tuttavia non disdegnava né la compagnia delle donne né la vita agiata presso le corti dell’epoca; difatti fu molto amato per la propensione a raccontare storie di forti passioni amorose. Soprattutto fu Isabella d’Este che lo accolse sotto la propria protezione a Mantova dopo che nel 1515 dovette fuggire da Milano conquistata dai Francesi.
Per quel che riguarda la sua produzione di novelle, si distingue per aver aggiunto al canone boccaccesco una breve morale al termine di ogni singolo racconto (misurando con questo artificio la propria ambiguità morale fra i convincimenti dell’autore e quelli dei personaggi narrati). Naturalmente non gli sono estranei i classici, che impiega con appropriatezza: per esempio Catullo per i dialoghi d’amore; Petrarca per i tormenti dell’animo e Ovidio per la descrizione della natura.
Le Novelle furono pubblicate nella prima edizione nel 1554 e presentavano una struttura per l’epoca assai originale: mentre molti autori suoi contemporanei adottavano l’espediente della cornice boccaccesca per poter legare i vari racconti, Bandello tolse del tutto tale cornice e preferì comporre una raccolta potenzialmente infinita; il suo intento era evidentemente quello di raccogliere tutte le novelle conosciute in un’unica opera. Per fare questo escogitò di redigere una raccolta in cui ogni novella fosse preceduta da una lettera con dedica che specificava le circostanze in cui l’autore era venuto a conoscenza della storia, di solito riferita da un interlocutore come “realmente accaduta” così da accentuarne i toni realistici; in sostanza ogni novella godeva di una breve cornice a essa dedicata. Proprio in queste lettere emergeva la familiarità dell’autore con le più importanti corti italiane e con le abitudini cortigiane, poi diffuse in Europa proprio con i toni e i modi bandelliani più che di altri autori italiani.
In conclusione, solo poche considerazioni sul Romeo and Juliet (1592-‘95) di Shakespeare, una delle tragedie più note della storia della letteratura mondiale. Nacque già nel Quattrocento una particolare novella detta spicciolata, con la caratteristica di poter essere pubblicata come testo singolo, senza alcuna cornice; fra queste la Historia de duobus amantibus (scritta con intenti umanistici nel 1444 da Enea Silvio Piccolomini, ovvero papa Pio ii). L’intreccio del dramma era talmente interessante che fu ripreso dai migliori novellieri italiani: Masuccio Salernitano ambientò a Siena la storia di Mariotto e Giannozza nel suo Novellino (1476); Luigi da Porto collocò a Verona la Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti (1530); infine il nostro Bandello con la novella pubblicata in questa edizione e scritta nel 1554 (la nona della seconda parte delle Novelle). Poi fu stampata la traduzione in francese nel 1559 di Boaistuau con il titolo Histoires Tragiques extraites des ouvres italiens de Bandel; la versione inglese The Tragicall Historye of Romeo and Juliet (1562) di Arthur Brooke e infine il libro, letto dal Bardo e assai diffuso all’epoca, The Palace of Pleasure (1567) di William Painter.
In questa intensa storia gli intrecci narrativi sono talmente ben disposti e avvincenti che i personaggi risultano particolarmente caratterizzati, specie in un’epoca in cui normalmente si concepiva il destino dei protagonisti di una tragedia legato più alla Fortuna che alle scelte individuali.
Vi sono evidenti differenze fra l’adattamento scespiriano e la novella di Bandello qui pubblicata. Anzitutto l’intento morale: mentre Shakespeare vuole trasmettere il concetto che l’amore è in grado di superare e risolvere i più violenti conflitti, vera causa del dolore, Bandello si limita a sostenere di voler raccontare tale storia per insegnare ai giovani a non cedere alle passioni, spesso causa di autentici pericoli. Entrambe le versioni sono scritte con un linguaggio che cede volentieri ai doppi sensi e alle volgarità, anche se Bandello tiene un profilo più composto. Talvolta per esigenze sceniche i luoghi del dramma sono stati modificati: per esempio ciò che per Bandello è un vialetto illuminato, in Shakespeare si trasforma nel famoso balcone di Giulietta. Accade similmente con i tempi della narrazione; Bandello svolge la storia in nove mesi e Shakespeare in cinque giorni: nella versione qui pubblicata Romeo partecipa alla festa in maschera a casa Capelletti subito dopo Natale, mentre il matrimonio fra Paris e Giulietta è collocato per l’Assunzione (15 agosto).
Si può dire che il Bardo abbia conservato i personaggi presenti in Bandello, pur cambiandone la psicologia e il carattere. Giulietta e Romeo sono nella versione italiana ben più maturi e disposti alla riflessione rispetto agli adolescenti viziati e impulsivi di quella inglese. I genitori di Giulietta in Bandello sono assai più premurosi, mentre in Shakespeare la vera figura materna per Giulietta è la balia, che nella versione più antica è quasi assente. In Bandello Tebaldo è ucciso da Romeo dopo averlo aggredito, mentre in Shakespeare solo dopo che ha ucciso Mercuzio, il quale peraltro ha una funzione ben più importante che nella novella italiana (come leggerete, Mercuzio ha qui nome Marcuccio ed è menzionato come rivale in amore di Romeo con poche chance, poiché a differenza sua ha le mani gelide!).
Ecco un chiaro esempio di moralità incerta, se non proprio ambigua: frate Lorenzo in Bandello agisce per lo più per preservarsi le grazie dei Capelletti e ha tinte non sempre chiare (Giulietta, non riconoscendo Romeo, accusa il frate di averla baciata); in Shakespeare invece è totalmente positivo. Infine, la differenza più evidente: nella novella italiana Giulietta non beve una pozione, ma muore di crepacuore dopo aver saputo del suicidio di Romeo. E benché al termine della tragedia in entrambe le versioni ritorni la pace tra le famiglie, il Bandello – in modo più realista – conclude affermando che la tregua non durò per molto.
Per questa edizione si è adottata una scelta del tutto eccentrica non pubblicando il testo originale di Bandello ma rivedendo i termini in una lingua italiana più accessibile, di modo che il lettore possa fruire delle tre storie senza uno sforzo eccessivo. Invitiamo i lettori più curiosi a raffrontare i testi originali per le tre novelle; come abbiamo visto, le differenze fra i due testi dicono molto del loro tempo.
Sospesi fra la certezza che non vi sarà mai termine ai conflitti
e l’auspicio che l’amore sia la soluzione alle guerre quotidiane,
pubblichiamo queste tre novelle al termine dell’anno 2019
con l’augurio che questa stessa umanità
possa ritrovarsi legata, nel destino e negli intenti,
dalla consapevolezza che il tempo (che ci separa da queste opere)
e lo spazio (che ci separa dai nostri contemporanei)
non è poi molto.
Quindi comprendiamoci, stiamo assieme,
condividiamo ciò che abbiamo.
Fabio Di Benedetto