La Vera Leila

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Leila Cattalini

La Vera Leila

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La Vera Leila. Mi chiamo Leila, in arabo “scura come la notte”, e ho un sole tatuato in fronte per dare energia positiva a me stessa e agli altri. 
Il mio mostro si chiama sclerosi multipla, mi tormenta da anni. In questa mia autobiografia racconto della mia famiglia, profughi istriani giunti dalla Dalmazia a Mantova nel 1946, della malattia che mi ha colpito sin da bambina e di quanto sia stato difficile per una donna come me trovare una serenità sentimentale e professionale, oltre che fisica.
In queste mie brevi note racconto inoltre con ironia alcuni aneddoti a cui ho assistito su luoghi conosciuti e persone note a Mantova, città che confonde i vizi con le virtù
In particolare negli ultimi anni ho avuto esperienze che mi hanno insegnato ad apprezzare la vita, ringraziare per essere viva, per essere qui ora e sperare in un futuro migliore.

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Leila, il cui nome in arabo significa “scura come la notte”, ha un sole tatuato sulla fronte, un simbolo che emana energia positiva per se stessa e gli altri. La sua autobiografia è un intreccio tra la sua vita e la presenza costante della sclerosi multipla, un “mostro” che ha affrontato per molti anni. Nel racconto delle sue esperienze, emerge anche la storia della sua famiglia: profughi istriani che nel 1946 hanno raggiunto Mantova dalla Dalmazia.

Fin dall’infanzia, Leila è stata afflitta dalla malattia, la sclerosi multipla, e nel corso del tempo ha sperimentato le sfide sia fisiche che emotive. Nel corso del libro, emerge il ritratto di una donna alla ricerca della serenità, sia nel campo sentimentale che professionale, mentre affronta le sfide imposte dalla sua condizione.

Attraverso le pagine del suo racconto emergono anche aneddoti ironici che ha osservato in luoghi ben noti e con figure famose di Mantova. Questa città sembra a volte mescolare virtù e vizi in modo ambiguo. Negli ultimi anni Leila ha accumulato esperienze significative che le hanno insegnato a valorizzare ogni aspetto della vita, a riconoscere la gratitudine per l’opportunità di essere viva e a mantenere la speranza in un futuro più luminoso.


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La Vera Leila di Leila Cattalini

Prologo. Le origini di un nome

Questo mio nuovo libro riprende la storia mia e della mia famiglia ma descrive in particolare gli ultimi anni, durante i quali ho avuto esperienze negative ma anche molto positive che mi hanno insegnato soprattutto ad apprezzare la vita, ringraziare per essere viva, per essere qui ora e sperare in un futuro migliore.
L’analisi della mia storia rispecchia perfettamente il pensiero della dottoressa Anne Schützenberger, cioè la teoria della sindrome degli antenati. Sostiene infatti che esiste per ciascuno un passaggio involontario di eventi non risolti da una generazione all’altra: secondo lei i posteri proseguirebbero ciò che gli avi non hanno completato; ciò rappresenterebbe un debito nei confronti dei nostri antenati. In pratica non siamo psicologicamente liberi come crediamo restando prigionieri del passato. Questo chiarisce alcune delle situazioni a cui non sappiamo dare spiegazione.
Se è vero ciò che sostiene Sabrina Gervino nel suo libro sulle costellazioni familiari i nomi e i cognomi sono importanti in psicogenealogia per l’esame dell’Albero genealogico, ed elaborati e integrati danno importanti notizie sui segreti di famiglia e sulle imposizioni famigliari. Sia i cognomi che i nomi sono significativi e possono aiutarci a comprendere i traumi del passato. Se una donna che si chiama di cognome Paoli si unisce con un uomo che si chiama Paolo, o una donna che si chiama di cognome Bruzzone sposa un uomo che si chiama Bruzzo, dobbiamo pensare al Complesso di Edipo.

È un concetto della teoria psicoanalitica che descrive come il bambino nella normale fase evolutiva matura l’identificazione con il genitore del proprio sesso e il desiderio nei confronti del genitore del sesso opposto. Tale desiderio, se i genitori non colpevolizzano il bambino, viene superato e il bambino può proseguire le sue fasi evolutive.

(Cfr. S. Gervino, La genealogia che libera).

Le donne sopra citate hanno probabilmente un Edipo ancora aperto. Nei casi come questo un atto liberatorio sana l’Albero e affranca i discendenti. Tale situazione è frequente e un’analisi dell’Albero può valere più di anni di terapia.
Inoltre Edipo può far intuire segreti nascosti. Ribadisco che i dati si devono incrociare, ma fanno riflettere. Maria Montessori per esempio chiamò il figlio Mario e lo mise in un istituto: interessante per lei che era un’educatrice e una pedagogista.
Il mio nome, Leila, è di origine araba e deriva da un’antichissima leggenda. Il suo significato è letteralmente notte e viene a volte interpretato “scura come la notte”. Quindi un nome dolce, romantico e principesco per una bambina altrettanto dolce e bellissima. Come in Guerre stellari, Leila sarà sempre una principessa combattiva, umile e leale!


La Vera Leila


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Il soffitto astronomico di Casa Provenzali

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Sandro Zannarini

Il soffitto astronomico di Casa Provenzali

Un codice celeste del Rinascimento

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Il soffitto astronomico di Casa Provenzali. Il soffitto astronomico di Casa Provenzali, riemerso nel 2020 e restaurato nel 2021, si può ammirare a Cento, Ferrara, vicino a Corso del Guercino. L’edificio rinascimentale custodisce tesori astrologici, letterari e mitologici.

L’Autore attraverso l’analisi delle costellazioni offre una lettura inedita, accessibile e affascinante svelando i segreti celati nella rappresentazione astrale. Le illustrazioni xilografiche di Igino, del I secolo d.C., ne arricchiscono l’interpretazione iconografica.

«Il soffitto ligneo è una fedele rappresentazione del Poeticon Astronomicon di Igino, il progettista possiede grandi competenze in campo astronomico».

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Il soffitto astronomico di Casa Provenzali, riscoperto nel 2020 e magnificamente restaurato nel 2021, si presenta come un vero e proprio gioiello rinascimentale situato a Cento, nella pittoresca città di Ferrara. Un autentico scrigno di tesori astrologici, letterari e mitologici che l’autore, Sandro Zannarini, svela con passione e competenza in questa affascinante opera.

Attraverso una meticolosa analisi delle costellazioni e dei loro significati simbolici, l’autore ci conduce in un viaggio emozionante attraverso le stelle e le loro connessioni con la mitologia, la letteratura e l’arte.
L’approccio accessibile e coinvolgente di Zannarini rende questa lettura adatta sia agli appassionati di astronomia che a coloro che desiderano scoprire le profonde connessioni tra il cielo stellato e la cultura umana.

Inoltre l’inclusione di illustrazioni xilografiche tratte dal Poeticon Astronomicon di Igino, datate al I secolo d.C., aggiunge un ulteriore livello di profondità all’interpretazione iconografica del soffitto astronomico. Tali illustrazioni storiche arricchiscono il contesto e permettono di immergersi ancor di più nella ricchezza culturale e simbolica di questa meravigliosa rappresentazione artistica.

Sandro Zannarini, laureato in Astronomia presso l’Università degli studi di Bologna, trasmette la sua passione e la sua conoscenza attraverso la didattica, essendo un insegnante di Fisica presso il Liceo delle scienze applicate di Cento di Ferrara. Il suo impegno nell’approfondire e condividere la conoscenza astrale rende questa opera una risorsa preziosa per chiunque voglia esplorare il connubio tra le stelle e la cultura umana.


Il soffitto astronomico di Casa Provenzali. Biografia di Sandro Zannarini

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Il soffitto astronomico di Casa Provenzali di Sandro Zannarini

Introduzione

Il soffitto astronomico di Casa Provenzali a Cento, riemerso dall’oblio nel 2020 e riportato al suo antico splendore in seguito al restauro effettuato nel 2021 dopo la rimozione del controsoffitto che l’ha occultato per oltre un secolo, si è dimostrato a un più attento studio un meraviglioso crogiolo di arte, astronomia e letteratura.
Limitarsi ad affermare che il soffitto ligneo raffiguri le quarantotto costellazioni tolemaiche è alquanto semplicistico e riduttivo rispetto al suo vero significato iconologico. Il ciclo pittorico di Cento si è dimostrato unico nel suo genere essendo chiaramente una rappresentazione astronomica che non ha nulla a che fare con i più importanti cicli astrologici italiani, tra i quali sicuramente il più noto è il Salone dei mesi di palazzo Schifanoia a Ferrara.
L’ideatore del ciclo pittorico
Per presentare una descrizione razionale del ciclo centese occorre fare alcune riflessioni profonde, la prima delle quali è chiedersi chi può esserne l’ideatore. Fin dal primo momento che ho visto la Sala delle costellazioni ho dubitato che l’artista o gli artisti che lo avevano raffigurato fossero anche i progettisti dell’impianto. L’ideatore, di cui ignoriamo il nome, è sicuramente un erudito, forse un docente dello studio bolognese con profonde conoscenze astronomiche; da un’ipotesi – non fondata su documenti certi – potrebbe trattarsi di Luca Gaurico lettore di astronomia dell’ateneo bolognese della prima metà del Cinquecento. L’identificazione in Luca Gaurico non è casuale ma si basa sulla considerazione che forse riveste un ruolo principale nella descrizione del soffitto astronomico, come vedremo in seguito comparandolo con l’Astronomicon di Marco Manilio del i secolo d.C. Infatti è di Gaurico una famosa orazione composta a favore dei sostenitori dell’astrologia che cita gli antichi scrittori latini come Manilio.
Le fonti bibliografiche
Una seconda domanda cui è necessario rispondere è quale sia la fonte da cui gli artisti possono aver attinto per eseguire le iconografie delle costellazioni. Le immagini delle costellazioni zodiacali sono le più conosciute e rappresentate fin dal primo Medioevo; ne sono un esempio gli affreschi nel Palazzo della Ragione di Padova attribuiti a Giotto, che all’inizio del xiv secolo decorò le volte con motivi astrologici. Parimenti conosciamo la controparte iconografica anche di qualche costellazione extrazodiacale: una delle rappresentazioni più antiche è l’Atlante Farnese, databile al ii secolo e rinvenuto alle Terme di Caracalla a Roma intorno al 1546.
Raffigurazioni di costellazioni extrazodiacali più antiche si trovano nei trattati arabi, di cui l’autore più importante è l’astronomo persiano Abd al-Rahman al Sufi, il quale nel 964 compose un saggio sulle cosiddette “stelle fisse” (Descrizione delle stelle fisse o Libro delle stelle fisse) unendo gli esaurienti cataloghi stellari di Tolomeo contenuti nell’Almagesto (pubblicato nel 150 d.C.) alle tradizionali costellazioni arabe. Ciò che non esiste ancora nel primo Rinascimento è un vademecum in cui sono rappresentate tutte le illustrazioni delle quarantotto costellazioni.
L’ultima riflessione è di carattere propriamente astronomico, poiché il susseguirsi delle costellazioni nei vari cassettoni del soffitto non rispecchia rigorosamente la loro localizzazione sulla sfera celeste e nemmeno i cicli mitologici rappresentati sono rigorosamente attinenti ai miti a loro associati. Alla luce di queste considerazioni si è reso necessario ipotizzare altre possibili fonti che non fossero rigorosamente astronomiche utilizzate dalle maestranze che lavorarono a Casa Provenzali. Tali fonti potevano essere i poemi latini di Igino e di Manilio. In particolare l’Astronomicon (come dimostrato Warburg) di Manilio fu d’ispirazione a Pellegrino Prisciani per la rappresentazione della fascia superiore del Salone dei mesi a palazzo Schifanoia contenente gli dei che sovraintendono ai segni zodiacali.
Libero dal giogo scientifico in quanto astronomo del xxi secolo, osservando il soffitto ligneo con gli occhi di un astrologo del Rinascimento mi sono reso conto di ciò che i progettisti volevano rappresentare. Le stelle al momento visibili nel soffitto astronomico di Casa Provenzali sono 601. Un primo spiraglio si è aperto quando lo studio delle astrotesie presenti nelle varie costellazioni mi ha fornito la prova che la fonte si trovava nel Poeticon Astronomicon di Igino. È proprio la descrizione minuziosa che Igino dà del numero di stelle e della loro distribuzione all’interno delle costellazioni che ha confermato la mia ipotesi. Il poema di Igino del i secolo d.C. era molto conosciuto nel Rinascimento ed era considerato il testo di astronomia che s’insegnava nel quadrivio della scolastica. Il Poeticon Astronomicon rimase nella sua forma letteraria fino al 1482, quando a Venezia il tipografo tedesco Erhard Ratdolt lo arricchì con le illustrazioni delle quarantasei costellazioni. Rispetto alle tradizionali quarantotto costellazioni tolemaiche nell’edizione del 1482 mancano le costellazioni del Cavallino e della Corona Australe, mentre la costellazione del Lupo è unita a quella del Centauro. Non sappiamo chi sia realmente l’ideatore delle illustrazioni nel Poeticon Astronomicon del 1482, però sappiamo dagli appunti di Ratdolt che nel 1476 creò una società con altri due tedeschi Bernhard Maler di Augusta – incisore e stampatore, definito pictor e conosciuto a Venezia con il nome di Bernardo il Pittore – e Peter Löslein di Langencen (attuale Langenzenn), bavarese, chiamato corrector ac socius.
Il sipario si è finalmente alzato sul soffitto astronomico di Casa Provenzali svelando non solo l’autore della meravigliosa scenografia, ma anche il suo sceneggiatore: il poeta latino Caio Julio Igino.


Il soffitto astronomico di Casa Provenzali


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Memorie di un programmatore

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Graziano Natale Portesan

Memorie di un programmatore

Dall’alluvione del Polesine alla tecnologia digitale

in pubblicazione il 7 agosto 2023
Edizione cartacea (prevendita)
Edizione digitale (prevendita)


Memorie di un programmatore. L’Autore narra la storia personale e collettiva della propria comunità attraversando i momenti significativi del Paese dal boom economico del dopoguerra, al periodo della contestazione, fino all’avvento dell’era informatica.
Descrive l’alluvione del Polesine, che distrugge i raccolti e genera debiti con le banche. Il dolore e la miseria dilagano e molti emigrano in cerca di una vita migliore, in Brasile o in Piemonte.
Il libro racconta anche i cambiamenti sociali e tecnologici dell’epoca come l’avvento dei dischi per conservare i dati e l’introduzione dei computer nelle aziende come la Barbero. L’Autore descrive inoltre la sua esperienza presso IBM, dove la sua capacità di programmazione viene apprezzata e utilizzata nello sviluppo di nuove applicazioni.
Sono istantanee ancora presenti nella memoria, ritratti famigliari e sociali di un eccezionale testimone della storia del Paese.

«Nel Polesine l’alluvione ha distrutto ogni possibilità di raccolto e con il passare degli anni l’unica cosa che è cresciuta sono stati i debiti con le banche. Molti polesani dicono che peggio di così non può andare e con tale convinzione emigrano con la speranza di una vita migliore.».

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Scopri la storia avvincente e toccante di Graziano Natale Portesan nel libro Memorie di un programmatore. L’Autore conduce i lettori attraverso i momenti significativi che hanno plasmato la sua comunità e l’Italia nel corso dei decenni.

Dall’epoca del boom economico del dopoguerra alla tumultuosa era della contestazione e fino all’arrivo dell’era informatica, Portesan racconta le trasformazioni sociali e tecnologiche che hanno segnato il Paese. Un evento fondamentale nella sua narrazione è l’alluvione del Polesine, che ha portato devastazione, distruzione dei raccolti e debiti con le banche. Questo evento tragico ha spinto molti a cercare una vita migliore in luoghi come il Brasile o il Piemonte.

Il libro getta uno sguardo attento anche ai cambiamenti tecnologici, come l’avvento dei dischi per la conservazione dei dati e l’introduzione dei computer nelle aziende, come nel caso della Barbero. Portesan condivide la sua esperienza presso IBM, dove la sua abilità di programmazione è stata apprezzata e utilizzata nello sviluppo di nuove applicazioni.

Attraverso le parole dell’Autore queste istantanee del passato prendono vita offrendo un quadro famigliare e sociale di un testimone straordinario della storia del nostro Paese.

Memorie di un programmatore è un’opera che cattura l’attenzione e le emozioni del lettore offrendo uno sguardo autentico e coinvolgente sulla storia e sulle esperienze di una persona straordinaria.

Lasciati trasportare in un affascinante racconto che unisce la dimensione personale all’epopea collettiva di un’intera nazione.


Memorie di un programmatore copertina

Memorie di un programmatore copertina

Memorie di un programmatore di Graziano Natale Portesan

Introduzione. Ricordo di mia madre

È il 23 dicembre, giorno del mio compleanno. Mia sorella Sandra mi chiama al cellulare non per farmi gli auguri ma per dirmi che mamma è peggiorata e chiedermi di passare a farle visita; da quando l’Alzheimer si è preso la sua mente, vive nella casa di riposo dove Sandra opera come oss, scelta praticamente obbligata per garantirle un’assistenza continua e qualificata.

Chiedo se devo attrezzarmi per trascorrere la notte con lei.

«No, sono di turno. Tu passa solo per un saluto, anche se probabilmente non se ne accorgerà nemmeno».

Salgo in auto, la casa di riposo dista quindici chilometri dalla mia e ricordo il racconto della mamma a proposito del suo secondo viaggio a San Giovanni Rotondo. È stata donatrice Avis (medaglia d’argento, mancavano poche donazioni per ottenere quella d’oro). Ha partecipato a tutte le gite dell’associazione per visitare i santuari di mezzo mondo, però padre Pio le è rimasto nel cuore. Mentre sentiva il peso degli anni, nell’ultimo incontro durante una preghiera ha chiesto come avrebbe concluso la propria vita. «Non preoccuparti, quando sarà l’ora te ne andrai con la benedizione del Signore» è stata la risposta di padre Pio.

Mi viene spontaneo chiamare don Gianni, con il quale ho un ottimo rapporto, parroco di Canale. Strani scherzi della vita: sono nato a Canale di Ceregnano a Rovigo e vivo a Canale di Cuneo, due paesi con lo stesso nome ma lontani quasi quattrocento chilometri. Gli chiedo se può dedicarmi qualche ora per far visita a mia mamma: risponde che ha tempo, posso passare in canonica a prenderlo.

Mezz’ora dopo entriamo nella camera di mia madre. Lei ci guarda entrambi e forse capisce tutto perché vedo il suo viso rilassarsi e scorgo una luce diversa nei suoi occhi. Don Gianni le impartisce la benedizione degli Olii Santi, al termine della quale mi resta la sensazione che mamma non aspetti altro. Morirà un mese dopo con il sorriso sulle labbra fra le braccia di sua figlia Sandra.

Sulla strada del ritorno don Gianni mi guarda e con un cenno d’intesa chiede: «Presidente, sarò indiscreto, ma posso chiederle alcune cose?».

«Don perché mi chiami presidente e mi dai del lei?! Non siamo mica in Consiglio. Comunque chiedi pure».

«Come presidente della casa di riposo di Canale ti firmi con il nome di Natale, mentre gli amici ti chiamano Graziano. Questa sera poi ho notato che porti lo stesso cognome di tua mamma: come mai?».

«Don è una storia lunga, ma se mi inviti in canonica per un caffè e se hai voglia di ascoltare… – poi aggiungo – E lo sai come la penso: non sono affatto ateo, ma in chiesa mi vedi poche volte. Ti devo ringraziare di cuore per ciò che stasera hai fatto per mia madre e per me. Ci vediamo alla casa di riposo per gli auguri di buon Natale». Don Gianni mi guarda, sorride, mi tende la mano e chiede: «Presidente quando mi racconta il resto?».


Memorie di un programmatore


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Sospeso tra il Paradiso e la Terra

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Fantaramus

Sospeso tra il Paradiso e la Terra

L’ultima ricerca di sé

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Sospeso tra il Paradiso e la Terra. Dopo un terribile incidente Gioacchino si ritrova in una dimensione sconosciuta di fronte a Dio. Per la sua bontà, ottiene prima l’accesso al Paradiso e poi di tornare alla vita terrena per cercare un senso più profondo.
Attraverso l’amore e l’alleviamento delle sofferenze cercherà di chiudere il cerchio della sua esistenza e si trasferirà in un convento nel Sud Italia.
Un’avventura emozionante tra vita, morte e la ricerca di se stessi.

«Ho atteso la fine come una liberazione e non come una dannazione».


Fantaramus autore biografia

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Sospeso tra il Paradiso e la Terra di Fantaramus

Capitolo 1


Giorno dopo giorno sono arrivato alla soglia dei settanta. E potrei vivere bene ancora diversi anni se non fosse che mi trovo in un letto di ospedale, solo e gravemente malato. I sanitari mi hanno prognosticato ancora pochi mesi di vita; credo proprio che potrebbero essere le ultime albe che vedrò, concludendo così in questa valle di lacrime chiamato mondo la mia tormentata esistenza, che nonostante tutto ho amato aspettandone sempre con sollievo la fine.
È iniziato tutto da un banalissimo incidente stradale, che mi ha portato dapprima in una dimensione astratta, sconosciuta; e termina infine con questi ultimi giorni che chiudono il metaforico cerchio della vita, la mia esistenza. Condivido questo racconto per lasciarlo ai posteri prima che sia troppo tardi.
Il mio nome è Gioacchino Davasio, nacqui nel 1950 a Pesaro e vissi sempre nelle Marche. Abitavo in campagna e i miei genitori lavoravano con fatica quella terra che normalmente rendeva poco: metà del raccolto andava ai padroni del terreno, come stabilivano le regole della mezzadria. Non era facile tirare avanti ma in casa regnava armonia e serenità, regalo di una vita semplice; trascorsi l’infanzia in quella modesta ma accogliente abitazione. A sei anni frequentai le scuole del paese, feci le elementari ma poi non volli passare alle medie, non mi piaceva lo studio e a quei tempi la frequenza scolastica non era obbligatoria come divenne invece qualche anno dopo. I miei genitori insistettero non poco per convincermi a cambiare idea, ma ero testardo come un mulo e non volli sentir ragioni. Con il tempo mi sono assai pentito di quella decisione, ma da bambini si è troppo superficiali e studiare per me non era propriamente il gioco più bello del mondo. In seguito la mia famiglia si trasferì in un sito non lontano dove si poteva coltivare meglio e di più. Anch’io, oramai cresciutello, per quanto possibile contribuivo aiutando papà nei campi e così nel nuovo podere la nostra situazione economica migliorò sensibilmente. A quei tempi al bar si parlava di sport, donne e motori ma si discuteva spesso sul fatto che senza studi non si poteva fare neppure lo spazzino. E così intorno ai vent’anni tornai un poco a studiare per un corso serale di meccanica, di cui ero appassionato, conseguendo un diploma che mi sarebbe servito alcuni anni dopo per trovare lavoro in un’azienda che produceva macchine utensili. Lavorai lì i primi anni, per poi intraprendere la mansione di rappresentante e venditore delle macchine che fabbricavamo. Il nuovo inquadramento professionale, oltre a un aumento di stipendio, mi permetteva anche di viaggiare lungo lo Stivale per piazzare macchine industriali. Quanto amavo guidare!
Poi la mia esistenza ha proseguito con periodi più o meno facili, che però ho superato sempre al meglio con la mia forza di volontà; perché la vita è sempre e comunque degna di essere vissuta, visto che ne possediamo una sola. Io ho trascorso la mia sempre intensamente fra soddisfazioni – non molte per la verità – e delusioni o più esattamente sbagli, quelli sì in abbondanza, ma tant’è che l’esistenza umana null’altro è che una fucina per plasmare e temprare le persone. Bisogna comunque saper accettare ciò che il destino offre, e se lo afferma uno che si trova in un letto d’ospedale – non per dormire o fare altro di più piacevole – ci si deve credere. L’eventualità concreta di andare all’altro mondo non la temo affatto, anzi direi che è attesa con una certa impazienza. Non si tratta del classico rifiuto della vita dovuto magari a una sopraggiunta crisi esistenziale e non penso neppure di essere uscito di senno; la sorte nonostante tutto mi ha dato moltissimo, sarebbe l’unica maniera per continuare un viaggio fantastico incominciato tanti anni or sono e mai terminato. Quale persona sana di mente aspetta e desidera la morte, sapendo bene che è una delle poche certezze della vita? Lo so bene, ma è difficile comprendere ciò che voglio raccontare senza conoscere dal principio la mia storia, che è tanto unica quanto rara poiché nessun’altra persona al mondo ha vissuto lo stesso.


Oltre l’ombra di un sogno


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Marco Quarin

Oltre l’ombra di un sogno

Afferra il presente, diffida del domani

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Oltre l’ombra di un sogno. Angelo Brantani, psicoterapeuta di successo, in gioventù ne ha commessa una grossa ai danni dell’amico, futuro manager della Qualità Totale, e della donna del cuore.
Il manoscritto di uno strano paziente gli cambia radicalmente vita, vende la clinica rifugio della ricca borghesia milanese e acquista il Carpe Diem, un lago per la pesca sportiva nell’entroterra veneziano.
Ma non si cambia davvero, ci si adatta. Proverà a rimediare al delitto giovanile cercando una forma diversa d’amore. Bisogna pur rischiare di essere felici, anche quando il tempo della felicità sembra scaduto.

«Per quanto si cerchino mille scusanti per dimenticare, le nostre vigliaccate ci inseguono per il resto della vita».



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Oltre l’ombra di un sogno di Marco Quarin

Capitolo 1. La Clinica Brantani

Ottobre 2014


«Le verità assolute, estreme… Solo i bambini e i poeti possono proclamare verità assolute. Certo ciascuno ha diritto alle proprie convinzioni, ma ogni assolutismo, ogni estremismo distrugge ciò che afferma. Le profonde verità bisbigliano, si muovono lente e possenti, sono carsiche. Purtroppo l’estremismo penetra ovunque. Prendi il linguaggio. Una forma di estremismo narcisistico lo pervade, introdotto dalla mistica del possesso. Ho un problema: così esordiscono i pazienti al primo appuntamento. Un tempo le parole erano parole, non fonemi. Si può possedere un oggetto, non una persona, meno che mai un problema; il problema non è di nostra proprietà, già lo diceva Marcuse mi pare. E poi magari si scopre che il problema non è neppure nostro bensì di qualcun altro. Sarebbe corretto dire: attraverso un momento di difficoltà; vivo una situazione di disagio; soffro d’insonnia, idee fisse…».
Gli capitava spesso di ricamare su un pensiero raggiungendo a piedi la clinica, cieco e sordo a ciò che lo circondava. Un clacson lo fece trasalire e si rese conto che le sue coordinate mentali erano partite per l’altrove speculativo. Cos’erano quelle scatole di cemento mascherate da abitazioni di lusso? E quei parallelepipedi di vetro sparati verso l’alto? La City, la sfida del dio della modernità ai tempi della crisi.
Fece dietro front e dopo un centinaio di metri svoltò nella laterale alberata sulla sinistra. Non aveva l’aria di una strada milanese, vicino al centro per giunta: le ricurve tamerici sul bordo dell’asfalto, una casa con la torretta, inferriate di giardini recintati, un piccolo prato verde con i giochi per bambini e una montagnola di sabbia. Mancavano l’aroma salmastro e lo stridore di un gabbiano per pensarsi in una località balneare, magari dell’Adriatico. Ma lui era abituato al panorama sulla sua destra dove le auto erano parcheggiate in fila, le facciate stinte dei palazzi tradivano la secolare militanza meneghina e sui portoni di legno erano esposte una sfilza di placche semiossidate. Spesso si era chiesto cosa nascondessero quelle targhe con nomi quasi illeggibili: trascuratezza, cessazione dell’attività professionale o commerciale, spregio dei clienti? E poi due condomini grigi piantati su giganteschi piloni, con i vetri oscurati che sembravano trasudare come se calamitassero una pioggia impalpabile.
«Il cemento armato salva dai terremoti, ma imprigiona nella solitudine…».
Lasciò quel pensiero sul marciapiede e guardò in avanti, come per ricevere un’immagine che lo rassicurasse. Eccolo là lo sfavillio nel velo diafano delle trasparenze ambrosiane: la nuova targa di rame, doppia.
Decelerò per rileggerla. In maiuscolo, sul lato corto: Villa Brantani. In corsivo, sul lato lungo: Consulenze psicologiche – Psicodiagnostica – Psicoterapia – Cure palliative – Piscina idroterapica – Ospitalità – Congressi. Villa Brantani, che lui si ostinava a chiamare clinica ma clinica non era.
Un collega svizzero gli aveva suggerito di farne una specie di hotel psicologico di lusso dove chi attribuisce valore economico a ogni minuto del proprio tempo potesse trovare ristoro di corpo e mente; gente facoltosa che ama le comodità, la discrezione, l’efficienza, le cure farmacologiche all’avanguardia, la dieta detox, l’istruttore personale in palestra e il maestro in piscina. Era partito arredando due ambulatori, quattro stanze per gli ospiti, la mensa e la palestra; in cinque anni le stanze erano diventate dodici e nella dépendance aveva ricavato la piscina, la sauna, l’area per gli esercizi fisici e la sala conferenze.


Oltre l’ombra di un sogno


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Spinosa

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Massimo Zibordi

Spinosa

Racconti da un mondo perfetto

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Spinosa. Un libro vivace, ironico e autentico che racconta la vita nella campagna mantovana negli anni Cinquanta, ma non si tratta di una semplice autobiografia; il linguaggio è arricchito dall’esperienza poetica dell’Autore, che si fonde perfettamente con la prosa.
A Spinosa la povertà non intacca l’intelligenza o la dignità. I ragazzini apprendono una pedagogia fatta di terra e fossi, senza bisogno di manuali. La religiosità è spontanea e tutto è un gioco, un’intesa ideale tra uomini e natura.

«La sera infilava un’altra moneta rosso acceso nella fessura in fondo all’orizzonte, mentre l’acqua nei fossati parlottava amabilmente dei fatti del circondario».


Quarantadue racconti che fanno riflettere sulla vita, sulla natura e sulle sirene del progresso. Ci si sentiva al centro dell’universo in quella piccola borgata. Si diventava grandi ma senza averne ancora la scorza; e i grandi, si sa, tradiscono sempre i bambini. Ci si credeva invincibili, il vero nemico si sarebbe rivelato il tempo e nessuno si sarebbe salvato.


Biografia di Massimo Zibordi

Copertina Spinosa

Spinosa di Massimo Zibordi

Presentazione

C’è un passo che mi intriga, breve, brevissimo, nelle pagine di Spinosa. Si trova nel racconto Il martin pescatore, là dove il volatile sembra proporre all’adolescente Marco alcune suggestioni straordinarie: il ragazzino si accorge che negli occhi del martin pescatore risiede «la magia di lontanissime e precise rotte migratorie» e poi viene dallo stesso messo in guardia: le sirene talvolta imbrigliano la mente ai nocchieri e con il loro canto ne confondono la rotta.
Sono due originali metafore di molte (tutte?) storie presenti nella raccolta. Incominciamo dalle remotissime rotte migratorie. Non di migrazioni geografiche si tratta ma di affioramenti lontanissimi e tuttavia meravigliosamente precisi, partiti dagli anni Cinquanta e giunti fino a noi. Sessant’anni di “movimenti migratori” (si intenda qui la vita trascorsa da Massimo) non hanno alterato la magia di quel mondo perfetto, ce lo restituiscono invece come se stesse scaturendo da una limpidissima sorgente di montagna posta ai piedi di un nevaio. Quelle donne e quegli uomini, quei cani da ferma e i loro allenatori e veterinari, quelle abitudini e quelle credenze han fatto un loro percorso, han compiuto una precisa migrazione che nello stesso tempo ne ha mantenuto vivissima la matrice ma le ha risuscitate a un livello ove la storia lascia il posto all’etica. Il loro movimento, la loro migrazione, non è carsica, non è tribolata, ma si propone a noi con una trasparenza eccezionale, con i colori nitidi di una giornata luminosa dopo una notte di vento; gratifica il lettore che vi ritrova una vivacità, un’ironia e un’autenticità che sì, davvero, rimandano a un mondo perfetto che è quello dell’infanzia a Spinosa.
E poi ci sono queste sirene che nutrono da sempre l’insano desiderio di smarrire i nocchieri. Rischio eterno, tentazione costante ma lecita, ché solo chi si smarrisce può infine ritrovarsi. E tuttavia a Spinosa, in quel mondo terragno e plastico dove la legge prima – quella più importante – non è scritta nei codicilli di volumi enormi ed ermetici ma dentro il cuore delle persone, le sirene ci sono anche per giovani e giovanissimi; esse tentano, come dice il martin pescatore, di far smarrire la strada ma senza avvedersene la insegnano. Ché non solo l’Autore, ma tutta la folla che egli racconta, se di smarrimenti ne ha avuti, sempre alla fine si è ritrovata.
Con questo mi pare di aver sottratto Spinosa alla pur straordinaria bellezza della rievocazione autobiografica per consegnarlo a un livello ove ogni gesto, ogni parola, ogni episodio, ogni presa di posizione, perfino ogni cane e ogni gatto, assurgono – senza che mai l’Autore abbia bisogno di salire in cattedra – a massima comportamentale universale.
Ecco perché mi piacciono le sue memorie. E anche perché ci sono in quelle storie mille altre cose che appartengono a una quotidianità genuina, semplice, nostra. L’elenco è lunghissimo, inesauribile: il mozzicone dell’Alfa che pende dall’angolo della bocca; il cappello di paglia della Vitasol; il tirar su con il naso; il budino San Martino; il rosario; il lardo; Rin-tin-tin; la camera d’aria che non finisce mai di servire; il pane con lo zucchero; il secchiaio; perfino gli orinali… E dentro questo mondo, noi (consentimi Massimo di entrare anch’io, lateralmente, nelle tue storie).
C’è poi un linguaggio che – ora qui ora là, senza darlo a vedere, con le sole parole, senza immagini o altri ausili – si fa forte dell’esperienza poetica, non estranea a Massimo, e che qui con la prosa va a braccetto: «La terra, insaziabile come ogni sera, ingoiava un sole infuocato»; «nel riflesso frantumato della luna»; «nella genesi del mattino». E poi la neve che «scendeva lieve come una preghiera» e il sole che allunga «un sipario d’ombra» e le «chiassose risate dei fossi», e Dio sa quale timbro avevano per Massimo quelle risate. Ascoltiamo le parole. Hanno bisogno, almeno qualche volta, di accostarsi come vogliono loro, senza regole, o come i poeti saggi o capricciosi le costringono a fare. Fa bene avere un corpo a corpo con le parole, a chi scrive e a chi legge.
C’è una povertà a Spinosa che non intacca né l’intelligenza né la dignità. C’è una pedagogia senza manuali fatta di terra e di fossi. C’è una religiosità spontanea e confidenziale, così come compare nell’ultima riga del racconto Il chiodo della Madonna: «Tra madri certe cose non hanno bisogno di commenti». E le due madri, poste su uno stesso piano che nulla ha di sacrilego, sono la madre naturale e la Madonna: bellissimo!
Ci sono tutte queste cose e molte altre ancora nei racconti, che è come dire in Spinosa, che è come dire nel libro. Perché Spinosa e il libro si identificano, ontologicamente non figuratamente intendiamoci.
Ecco perché mi piacciono i racconti di Massimo.

Aldo Ridolfi
Tregnago, 1° maggio 2021.


Spinosa


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Cronache di un viaggiatore mantovano

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A cura di Roberto Piola

Cronache di un viaggiatore mantovano

Il Novecento tra Mantova e Bologna raccontato in un vecchio diario ritrovato

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Cronache di un viaggiatore mantovano. Conclusa la Liberazione si desiderava la pace per dimenticare le aggressioni, le ingiustizie e le rinunce. Era vergogna o voglia di dimenticare? Una lettera della sorella annunciava quell’anno ricchi raccolti in campagna, ma Guido combatteva sull’Isonzo e avrebbe preferito una tempesta di granate se fosse servita a cancellare la guerra.
Questo libro è il diario scritto fra Mantova e Bologna da un commesso viaggiatore che ha vissuto in prima persona lo sviluppo urbano e sociale della prima metà del Novecento, gli scontri politici e la tragedia della deportazione dei propri cari nei campi di concentramento nazisti.
I racconti sono accompagnati da fotografie e immagini dell’epoca, molte già presenti nel diario originale.


Biografia di Roberto Piola

Cronache di un viaggiatore mantovano a cura di Roberto Piola

Introduzione

Tutto parte da un’agenda lasciata dal nonno (classe 1888) a un nipote ancora bambino, poi a lungo passata da un cassetto all’altro e infine dimenticata. Circa cinquant’anni dopo il nipote la ritrova e trova anche il tempo e la curiosità di mettersi a sfogliare quelle pagine con calma per la prima volta. Da qui l’idea di trascrivere a computer, parola per parola, il manoscritto del nonno.

Seguendo il racconto di una vita piuttosto comune ma narrata con estrema chiarezza il nipote ne diviene partecipe e rivive le esperienze provate dal nonno in un’epoca a lui sconosciuta. Il nonno, rappresentante di commercio nato e vissuto a Mantova, ha attraversato – apparentemente senza troppe scosse e difficoltà – entrambe le guerre del Novecento.

Il nipote, il quale sta per raggiungere l’età del nonno quando gli ha consegnato l’agenda, comincia però a dubitare sul racconto, che giudica fin troppo edificante, e si pone alcune domande sulla vera storia della sua famiglia. Scopre così che il manoscritto tramandatogli contiene soltanto una parte di verità, quella più piana, gradevole e consolante; insomma quella che, a giudizio degli adulti, non può procurare traumi né suscitare paure in un bambino. L’agenda non rivela infatti assolutamente nulla delle vicende terribili che hanno colpito la famiglia d’origine della nonna, i cui anziani genitori erano stati razziati a Bologna dai nazifascisti che li avevano inviati a morire nel campo di sterminio di Auschwitz.

La verità del tutto inattesa su questa atroce vicenda – accuratamente sottaciuta in famiglia per più di una generazione – si presenta quasi per caso al nipote, intento a curare con puntiglioso scrupolo alcune note da porre a corredo della pubblicazione del memoriale; è da un breve testo lasciato dall’anziano prozio Loris Goldstaub, cognato di nonno Guido, scoperto in Internet consultando un sito dedicato alla Shoah, che riesce finalmente a ricucire la storia del ramo ebraico della propria famiglia.

La vicenda che sta dietro alla pubblicazione del presente libro appare dunque emblematica di quella fitta rete di silenzi e di deliberate rimozioni che per un paio di generazioni ha in larga parte offuscato la memoria civile del nostro Paese. Dopo queste scoperte il libro passa dal racconto di una vita locale, a quello più ampio di una tragedia mondiale. Tocca ora alla generazione dei nipoti e dei pronipoti riscoprire da sé, facendosi strada attraverso indizi obliqui e rivelazioni postume, le verità autentiche lasciate cadere nell’oblio da chi era vissuto prima e riuscire a dare finalmente conto senza più infingimenti né amnesie di quel che avvenne realmente quando la Storia irruppe nel cuore “segreto” di molte famiglie sconvolgendo l’intero Paese.

Un Paese, il nostro, che per troppo tempo – come documenta l’agenda lasciata da nonno Guido – ha preferito dare di sé un’immagine pacificante e illusoria senza osare guardare in faccia la terribile realtà di quel che davvero è accaduto nelle case private degli italiani e nelle istituzioni pubbliche, specie negli anni cruciali seguiti all’emanazione delle leggi razziali e in quelli ancora più tragici dell’occupazione nazista. Un Paese vissuto, dalla Liberazione in poi, all’ombra dei suoi vuoti di memoria. Vuoti inveterati che solo una ricerca storica condotta con estremo scrupolo scientifico e senza indulgere ad alcun conformismo può finalmente riuscire a scalfire e in certi casi persino a colmare.

Ma quel che più ci stupisce è apprendere dalla lettura di questo libro assolutamente sincero che i silenzi in famiglia sulla tragica fine dei bisnonni materni del suo curatore non sono stati osservati solo da nonno Guido, che era di “razza gentile”, ma anche dal prozio Loris fratello di nonna Fedora e quindi come lei di origine ebraica.

Roberto Piola, scrupoloso curatore del volume, rievoca in una nota i suoi incontri da fanciullo a casa dell’anziano prozio, musicista e pittore. Questi, a lungo costretto a nascondere le proprie origini, mai ha voluto renderlo partecipe di storie di famiglia che temeva avrebbero potuto non solo turbarlo, ma dal suo punto di vista forse anche metterlo in pericolo.

Questi impenetrabili silenzi appaiono per molti aspetti simili a quelli che circondano in famiglia il giovane protagonista del romanzo di Grossman Vedi alla voce: amore (1986), un testo assolutamente esemplare sulla rimozione della memoria e sulla faticosa riconquista, da parte di un nipote, della verità storica intorno allo sterminio dei propri avi. Il curatore, scavando con ostinazione e tenacia dietro la reticente agenda che contiene le memorie del nonno, ha osato compiere un’operazione di verità assimilabile a quella compiuta dal piccolo Momik.

Ma adesso il compito passa ai lettori.

Giancorrado Barozzi

Mantova, 27 gennaio 2013


Cronache di un viaggiatore mantovano


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Il dono della guarigione

Copertina Il dono della guarigione
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Brunella

Il dono della guarigione

Prima impari, poi fai, quindi insegni

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Il dono della guarigione. È la storia di una bambina che si immagina maga per vincere le sue paure.
Maria Sole nasce nel Dopoguerra in un piccolo paese dove le tradizioni contadine si confrontano con le esigenze del progresso.
Con l’aiuto degli Spiriti amici impara il valore della pazienza, l’equilibrio della natura, l’importanza di non giudicare gli altri e scopre la felicità radicata nelle piccole cose. Crescendo cercherà di superare il dolore e la morte – naturali nel percorso di una vita – con semplicità e amore.
Un romanzo che vuol creare nell’animo del lettore nuove strade da percorrere per vivere in armonia e serenità.


Biografia Brunella

Copertina Il dono della guarigione

Il dono della guarigione di Brunella

Introduzione

Alcuni ricordi sono memorie antiche scolpite nell’anima, vicissitudini che lasciano segni indelebili. Le esperienze fatte, la famiglia che abbiamo avuto, la società e il luogo dove abbiamo vissuto, gli amici, i maestri che hanno forgiato, plasmato, inciso e condizionato la nostra mente. I ricordi dell’infanzia sono i più delicati, influiscono maggiormente sulla personalità. «Chi sorride da piccolo, sorride tutta la vita» soleva affermare la madre di Maria Sole.

Ed è vero, un’infanzia serena senza traumi è il viatico per una vita piena, consapevole e leggera. Se poi è farcita di ideali sani e valori importanti il cammino si rivela come una sana passeggiata nel bosco.

Si parte di primavera nelle prime ore dell’alba quando il sole non ancora alto in cielo riscalda tiepidamente i rami degli alberi e le foglie tremolanti ancora cariche di rugiada della notte disegnano lungo il percorso dolci ombre amiche. I sentieri sono molti e non ci saranno indicazioni, ciascuno ha una propria via da percorrere e proprie ombre da scrutare. Alla nascita non vengono rilasciati libretti di istruzioni o mappe da seguire; avremo in mano un quaderno di fogli bianchi sul quale scrivere, disegnare, cancellare e riscrivere, macchiare e pulire, strappare magari e ricominciare su un altro foglio. Nessuno sa quante pagine contenga, ogni volta che lo sfoglieremo avremo l’opportunità di intraprendere un nuovo sentiero e partire per una diversa avventura: dipenderà da noi come la vorremo vivere.

E quando si arriverà all’ultima pagina, dove qualcuno avrà già scritto “fine”, la storia sarà impressa e non sarà più possibile cancellarla né tornare indietro; potremo rileggere ed evocando i ricordi ci accorgeremo di come è stata la passeggiata. Se non avremo rimpianti e rimorsi la fine sarà dolce e rilassante come quando la sera, prima di spegnere le luci, si termina il capitolo di un buon libro: le emozioni emerse durante la lettura si assopiscono lasciandoci sereni, in pace con noi stessi, pronti per un meritato riposo.

Il dono della guarigione


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Matematica per le scienze sociali

Matematica per le scienze sociali cover
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Vincenzo Capasso

Matematica per le scienze sociali

Fisica del comportamento umano

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Matematica per le scienze sociali. Associamo la matematica esclusivamente alla quantificazione e al calcolo, ma ciò che la rende rigorosa e universale è la sua natura astratta. La sociologia invece fa ancora uso di un linguaggio vago, impregnato di ideologie, credenze e opinioni soggettive. L’elaborazione di modelli matematici affidabili può risolvere l’ambiguità del sillogismo statistico, che tanto assilla le ricerche sociologiche.

In questo libro:
• si spiega la vera natura della matematica,
• si indagano le difficoltà della sociologia nel costituirsi come scienza valida,
• si afferma la possibilità di un impiego proficuo della matematica nello studio dei fatti sociali.

Per Galileo non bisogna ricercare una spiegazione fisica dei fenomeni naturali, ma una descrizione matematica. Lo stesso Newton fondò la sua attività scientifica su basi strettamente matematiche evitando qualsiasi tipo di spiegazione fisica.


Vincenzo Capasso biografia

Matematica per le scienze sociali cover

Matematica per le scienze sociali di Vincenzo Capasso

Introduzione

Non è il caso di scomodare quel noto conduttore televisivo che in tarda serata riusciva a catturare l’attenzione di molti telespettatori con le sue domande profonde e circolari sul senso della vita. Benché a volte la vita potrebbe sembrare un sogno, oppure in certi casi un incubo, inseguire un sogno sicuramente aiuta a vivere meglio.

Avrei voluto realizzare tanti sogni, spesso mi sono dato da fare per realizzarne alcuni e, chissà, magari un giorno riuscirò raggiungere l’obiettivo. Ho avuto sempre la ferma convinzione che un sogno, per tenerci sempre impegnati in costanti tentativi di realizzazione, deve essere fondamentalmente irrealizzabile sennò non solo si smette di sognare ma anche di dare il massimo delle energie. La bellezza e la grandezza dell’inseguire un sogno sta più nell’inseguimento in sé che nell’avveramento del sogno stesso.

L’esempio più appropriato è la mia vecchia e grande passione per l’allenamento con i pesi, o il fitness in genere. Cinque anni fa mentre festeggiavo i miei cinquantacinque anni un caro amico mi chiese quali fossero gli obiettivi che intendevo raggiungere nel futuro. Gli spiegai che avevo stilato un valido programma di allenamento (non era vero) i cui risultati però si sarebbero visti solo dopo cinque anni; ma la cosa veramente entusiasmante è che avevo preparato anche un programma di riserva nel caso non avessi raggiunto il mio obiettivo. Ovviamente il programma di riserva avrebbe avuto una durata di altri cinque anni, arrivando così alla fatidica età di sessantacinque anni. Morale della favola: credo che il segreto per vivere bene e il più a lungo possibile – destino a parte – sia avere sempre un sogno da realizzare.

La mia grande passione per la matematica, la logica, la sociologia e per tutte le questioni epistemologiche e filosofiche correlate ha un legame molto stretto con le vicende della mia vita. A tal proposito vorrei accennare solo brevemente ad alcuni fatti autobiografici in quanto occupano una posizione di rilievo nell’analisi di alcune problematiche logiche ed epistemologiche generali, e delle scienze sociali in particolare; in definitiva si potrebbe affermare che quasi tutta la mia esistenza ha avuto a che fare con il problema della verità e la logica, per cui vorrei iniziare a raccontare il nesso tra le vicissitudini della mia vita e il problema della verità. L’obiettivo è dare un fondamento vivo alla vera natura della conoscenza scientifica, ovvero scoprire cosa si nasconde dietro la pura apparenza delle cose; fare emergere in modo inequivocabile la verità, soprattutto quando si tratta di fatti inestricabilmente collegati alla propria esistenza. Ciò che spinge l’uomo alla conoscenza non è solo la semplice curiosità ma anche l’esigenza e il bisogno di risolvere problemi concreti. Dedicarsi alla ricerca scientifica senza considerare il legame con il proprio vissuto personale è uno sforzo che trovo quasi privo di fondamento. In ognuno di noi c’è sempre quella scintilla che fa emergere un grande interesse per cercare risposte ai tanti quesiti dell’esistenza umana e della vera natura della realtà che ci circonda.

Matematica per le scienze sociali


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La fine del poeta

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Claudio Conforti

La fine del poeta

Il filo sospeso, il baratro atteso

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La fine del poeta

A voi che aprite il cuore
ai miei versi d’amore
lo so, sono parole,
perciò perdonatemi l’errore
di non essere migliore,
di non essere perfetto
come un Cristo eletto,
poiché niente vi prometto.
E non vorrei mai far questa pazzia,
mi ha scelto la poesia
che racconta una vita
che vorrei fosse infinita
annunciandola da profeta,
e invece devo raccontare
di una gioia fine al dolore,
di uno scheletro nell’abito nuziale,
della fine e del male,
di lacrime e sconfitte
e poi ancora della morte.
Perciò non è per scelta mia,
me lo impone la vita,
di fare pure io la fine del poeta.

Mi chiamo Claudio Conforti, sono nato il 12 giugno 1974 a Lamezia Terme in provincia di Catanzaro, dove risiedo tutt’ora.
Sin dalla giovane età ho manifestato interesse per i testi poetici cercando il vero senso della vita, che la teatralità del mondo non spiega. Almeno fino a quando non si prende carta e penna e si comincia a scrivere chiedendosi il perché di ciò che si vede, che viene sì dal cuore ma in verità non è l’amore: quell’amore che si vorrebbe e che certo cambierebbe tutto il male in bene.
Così ho iniziato a tradurre in poesia i miei desideri, le mie esperienze e le mie speranze con il desiderio di suscitare amore soprattutto tra le nuove generazioni, che vedo mosse soprattutto da ambizioni venali che inevitabilmente condurranno a cocenti delusioni, rimpianti e rimorsi per una coscienza mai portata avanti.


Biografia Claudio Conforti

Copertina La fine del poeta

La fine del poeta di Claudio Conforti

Prefazione

A voi che aprite il cuore
ai miei versi d’amore
lo so, sono parole,
perciò perdonatemi l’errore
di non essere migliore,
di non essere perfetto
come un Cristo eletto,
poiché niente vi prometto.
E non vorrei mai far questa pazzia,
mi ha scelto la poesia
che racconta una vita
che vorrei fosse infinita
annunciandola da profeta,
e invece devo raccontare
di una gioia fine al dolore,
di uno scheletro nell’abito nuziale,
della fine e del male,
di lacrime e sconfitte
e poi ancora della morte.
Perciò non è per scelta mia,
me lo impone la vita,
di fare pure io la fine del poeta.

La fine del poeta


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