Francesca Marra
Solitudine allo specchio
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Solitudine allo specchio. Quante volte capita di guardarci allo specchio e di non riconoscere il nostro riflesso?
«Martine aveva me e io avevo lei. Due esseri umani completamente diversi accomunati da uno strano senso di solitudine. Lei aveva bisogno di me per rimanere in forma, io di lei, per sentirmi ogni giorno impareggiabile».
Un viaggio introspettivo in cui la piccola Martine, paziente affetta da Asperger, insegnerà ad accettare queste forme di estraniamento, anche quando difronte ad uno specchio di una sala vuota d’ospedale, il corpo sembra perdere la sua forma. E così, al seguito di uno dei momenti più difficili della sua vita, il medico protagonista, Mimo, scoprirà di non essere più solo, proprio quando suo nonno salirà in cielo lasciandolo al suo destino, per sempre.

Solitudine allo specchio di Francesca Marra
Capitolo uno
«Svegliati, Mimo, oggi è un giorno importante! Te l’ho detto mille volte che non devi studiare di notte, non ti basta rientrare così tardi dal lavoro?». Il mio orecchio percepì soltanto l’eco dell’ultima parola, ma fu sufficiente a farmi spalancare gli occhi in direzione della sveglia: le otto di mattina. La voce di Frankie, dal tono provvidenziale, era arrivata a salvarmi dai rimproveri che mi avrebbe urlato contro Camiller se fossi arrivato in ritardo in ospedale. Era tardi, tardissimo. Il taxi prenotato la sera precedente sarebbe arrivato tra diciassette minuti; la riunione sarebbe iniziata dopo quarantacinque circa. Quella mattina, sul tavolo delle trattative, si sarebbe giocata una partita importante; ne stavamo discutendo ormai da una settimana insieme al team di esperti. La necessità di nuove risorse e strumenti all’avanguardia per migliorare le ricerche sperimentali si scontrava con le possibilità del nostro sistema sanitario. Ma il nostro polo ospedaliero era gemellato da tre anni con quello di Parigi e questo aggancio si dimostrò essere una grande fortuna. Camiller sapeva benissimo che io venivo da quella scuola. Effettivamente, anche i colleghi spesso mi chiedevano della mia formazione in Francia; capitava di trattenerci vicino alle macchinette del caffè (quello sconosciuto, che solo il nonno aveva la fortuna di prendere al villaggio), installate nei corridoi e arrivate nella capitale grazie ai fondi del concorso vinto. Un riconoscimento importante che ci aveva garantito il titolo di migliore azienda ospedaliera togolese, con la possibilità di fare nuove assunzioni e adempiere a incarichi più importanti in sperimentazione e sviluppo nel reparto di medicina interna. Camiller non era solo il primario del reparto di psicologia clinica e psicoterapia in cui lavoravo ormai a tempo indeterminato; in lui riuscivo a vedere molto di più che un semplice uomo dai baffi lunghi e il camice bianco che odorava di tabacco. «La barba lunga trattiene i germi e mi farebbe ammalare, i baffi sono sinonimo di saggezza» mi aveva risposto quando gli avevo chiesto il motivo di quella scelta che trovavo buffa. Poi ero rimasto a osservare il suo indice che ruotava intorno a quei peli grigi e il suo sguardo colmo di dissenso: era il suo rituale personale, quasi volesse dimostrare la regola necessaria per vincere un gioco.
La verità era un’altra: dai tempi adolescenziali amava imitare Salvador Dalí, il pittore, e in reparto lo sapevano tutti. Spesso chiacchieravamo in cortile dopo pranzo, quando gli orari ci facevano incontrare e lui, stanco del lavoro, mi ripeteva che forse avrebbe dovuto fare l’artista: la vita alla gente l’avrebbe salvata lo stesso, utilizzando le tempere colorate e non quelle amare medicine. Era un uomo distinto e rimaneva piuttosto riservato ma allo stesso tempo era un vero portento in tutti i casi che passavano dalle sue mani. Avevo avuto la fortuna di conoscere la sua famiglia durante l’ultima cena del reparto. Erike, suo fratello minore, mi aveva ricordato subito Alan: indossava lo stesso sorriso ingenuo ma dalla forza unica e coinvolgente. Tra noi era partito un abbraccio inaspettato e sincero, mi ero commosso a lungo ed ero tornato a salutarlo due volte prima di lasciare la sala del ristorante. Poi mi ero fermato a pensare al potere e all’impatto che i ricordi hanno sul presente, soprattutto quando si fa più fatica a staccarsene. Erano passati quindici anni da quando Alan non c’era più, eppure continuavo a cercarlo ovunque e bastava un incrocio di sguardi per tornare da lui.