La Vera Leila

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Leila Cattalini

La Vera Leila

in pubblicazione il 24 settembre 2023
Edizione cartacea (prevendita)
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La Vera Leila. Mi chiamo Leila, in arabo “scura come la notte”, e ho un sole tatuato in fronte per dare energia positiva a me stessa e agli altri. 
Il mio mostro si chiama sclerosi multipla, mi tormenta da anni. In questa mia autobiografia racconto della mia famiglia, profughi istriani giunti dalla Dalmazia a Mantova nel 1946, della malattia che mi ha colpito sin da bambina e di quanto sia stato difficile per una donna come me trovare una serenità sentimentale e professionale, oltre che fisica.
In queste mie brevi note racconto inoltre con ironia alcuni aneddoti a cui ho assistito su luoghi conosciuti e persone note a Mantova, città che confonde i vizi con le virtù
In particolare negli ultimi anni ho avuto esperienze che mi hanno insegnato ad apprezzare la vita, ringraziare per essere viva, per essere qui ora e sperare in un futuro migliore.

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Leila, il cui nome in arabo significa “scura come la notte”, ha un sole tatuato sulla fronte, un simbolo che emana energia positiva per se stessa e gli altri. La sua autobiografia è un intreccio tra la sua vita e la presenza costante della sclerosi multipla, un “mostro” che ha affrontato per molti anni. Nel racconto delle sue esperienze, emerge anche la storia della sua famiglia: profughi istriani che nel 1946 hanno raggiunto Mantova dalla Dalmazia.

Fin dall’infanzia, Leila è stata afflitta dalla malattia, la sclerosi multipla, e nel corso del tempo ha sperimentato le sfide sia fisiche che emotive. Nel corso del libro, emerge il ritratto di una donna alla ricerca della serenità, sia nel campo sentimentale che professionale, mentre affronta le sfide imposte dalla sua condizione.

Attraverso le pagine del suo racconto emergono anche aneddoti ironici che ha osservato in luoghi ben noti e con figure famose di Mantova. Questa città sembra a volte mescolare virtù e vizi in modo ambiguo. Negli ultimi anni Leila ha accumulato esperienze significative che le hanno insegnato a valorizzare ogni aspetto della vita, a riconoscere la gratitudine per l’opportunità di essere viva e a mantenere la speranza in un futuro più luminoso.


La Vera Leila - copertina

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La Vera Leila di Leila Cattalini

Prologo. Le origini di un nome

Questo mio nuovo libro riprende la storia mia e della mia famiglia ma descrive in particolare gli ultimi anni, durante i quali ho avuto esperienze negative ma anche molto positive che mi hanno insegnato soprattutto ad apprezzare la vita, ringraziare per essere viva, per essere qui ora e sperare in un futuro migliore.
L’analisi della mia storia rispecchia perfettamente il pensiero della dottoressa Anne Schützenberger, cioè la teoria della sindrome degli antenati. Sostiene infatti che esiste per ciascuno un passaggio involontario di eventi non risolti da una generazione all’altra: secondo lei i posteri proseguirebbero ciò che gli avi non hanno completato; ciò rappresenterebbe un debito nei confronti dei nostri antenati. In pratica non siamo psicologicamente liberi come crediamo restando prigionieri del passato. Questo chiarisce alcune delle situazioni a cui non sappiamo dare spiegazione.
Se è vero ciò che sostiene Sabrina Gervino nel suo libro sulle costellazioni familiari i nomi e i cognomi sono importanti in psicogenealogia per l’esame dell’Albero genealogico, ed elaborati e integrati danno importanti notizie sui segreti di famiglia e sulle imposizioni famigliari. Sia i cognomi che i nomi sono significativi e possono aiutarci a comprendere i traumi del passato. Se una donna che si chiama di cognome Paoli si unisce con un uomo che si chiama Paolo, o una donna che si chiama di cognome Bruzzone sposa un uomo che si chiama Bruzzo, dobbiamo pensare al Complesso di Edipo.

È un concetto della teoria psicoanalitica che descrive come il bambino nella normale fase evolutiva matura l’identificazione con il genitore del proprio sesso e il desiderio nei confronti del genitore del sesso opposto. Tale desiderio, se i genitori non colpevolizzano il bambino, viene superato e il bambino può proseguire le sue fasi evolutive.

(Cfr. S. Gervino, La genealogia che libera).

Le donne sopra citate hanno probabilmente un Edipo ancora aperto. Nei casi come questo un atto liberatorio sana l’Albero e affranca i discendenti. Tale situazione è frequente e un’analisi dell’Albero può valere più di anni di terapia.
Inoltre Edipo può far intuire segreti nascosti. Ribadisco che i dati si devono incrociare, ma fanno riflettere. Maria Montessori per esempio chiamò il figlio Mario e lo mise in un istituto: interessante per lei che era un’educatrice e una pedagogista.
Il mio nome, Leila, è di origine araba e deriva da un’antichissima leggenda. Il suo significato è letteralmente notte e viene a volte interpretato “scura come la notte”. Quindi un nome dolce, romantico e principesco per una bambina altrettanto dolce e bellissima. Come in Guerre stellari, Leila sarà sempre una principessa combattiva, umile e leale!


La Vera Leila


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Fantaramus

Sospeso tra il Paradiso e la Terra

L’ultima ricerca di sé

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Sospeso tra il Paradiso e la Terra. Dopo un terribile incidente Gioacchino si ritrova in una dimensione sconosciuta di fronte a Dio. Per la sua bontà, ottiene prima l’accesso al Paradiso e poi di tornare alla vita terrena per cercare un senso più profondo.
Attraverso l’amore e l’alleviamento delle sofferenze cercherà di chiudere il cerchio della sua esistenza e si trasferirà in un convento nel Sud Italia.
Un’avventura emozionante tra vita, morte e la ricerca di se stessi.

«Ho atteso la fine come una liberazione e non come una dannazione».


Fantaramus autore biografia

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Sospeso tra il Paradiso e la Terra di Fantaramus

Capitolo 1


Giorno dopo giorno sono arrivato alla soglia dei settanta. E potrei vivere bene ancora diversi anni se non fosse che mi trovo in un letto di ospedale, solo e gravemente malato. I sanitari mi hanno prognosticato ancora pochi mesi di vita; credo proprio che potrebbero essere le ultime albe che vedrò, concludendo così in questa valle di lacrime chiamato mondo la mia tormentata esistenza, che nonostante tutto ho amato aspettandone sempre con sollievo la fine.
È iniziato tutto da un banalissimo incidente stradale, che mi ha portato dapprima in una dimensione astratta, sconosciuta; e termina infine con questi ultimi giorni che chiudono il metaforico cerchio della vita, la mia esistenza. Condivido questo racconto per lasciarlo ai posteri prima che sia troppo tardi.
Il mio nome è Gioacchino Davasio, nacqui nel 1950 a Pesaro e vissi sempre nelle Marche. Abitavo in campagna e i miei genitori lavoravano con fatica quella terra che normalmente rendeva poco: metà del raccolto andava ai padroni del terreno, come stabilivano le regole della mezzadria. Non era facile tirare avanti ma in casa regnava armonia e serenità, regalo di una vita semplice; trascorsi l’infanzia in quella modesta ma accogliente abitazione. A sei anni frequentai le scuole del paese, feci le elementari ma poi non volli passare alle medie, non mi piaceva lo studio e a quei tempi la frequenza scolastica non era obbligatoria come divenne invece qualche anno dopo. I miei genitori insistettero non poco per convincermi a cambiare idea, ma ero testardo come un mulo e non volli sentir ragioni. Con il tempo mi sono assai pentito di quella decisione, ma da bambini si è troppo superficiali e studiare per me non era propriamente il gioco più bello del mondo. In seguito la mia famiglia si trasferì in un sito non lontano dove si poteva coltivare meglio e di più. Anch’io, oramai cresciutello, per quanto possibile contribuivo aiutando papà nei campi e così nel nuovo podere la nostra situazione economica migliorò sensibilmente. A quei tempi al bar si parlava di sport, donne e motori ma si discuteva spesso sul fatto che senza studi non si poteva fare neppure lo spazzino. E così intorno ai vent’anni tornai un poco a studiare per un corso serale di meccanica, di cui ero appassionato, conseguendo un diploma che mi sarebbe servito alcuni anni dopo per trovare lavoro in un’azienda che produceva macchine utensili. Lavorai lì i primi anni, per poi intraprendere la mansione di rappresentante e venditore delle macchine che fabbricavamo. Il nuovo inquadramento professionale, oltre a un aumento di stipendio, mi permetteva anche di viaggiare lungo lo Stivale per piazzare macchine industriali. Quanto amavo guidare!
Poi la mia esistenza ha proseguito con periodi più o meno facili, che però ho superato sempre al meglio con la mia forza di volontà; perché la vita è sempre e comunque degna di essere vissuta, visto che ne possediamo una sola. Io ho trascorso la mia sempre intensamente fra soddisfazioni – non molte per la verità – e delusioni o più esattamente sbagli, quelli sì in abbondanza, ma tant’è che l’esistenza umana null’altro è che una fucina per plasmare e temprare le persone. Bisogna comunque saper accettare ciò che il destino offre, e se lo afferma uno che si trova in un letto d’ospedale – non per dormire o fare altro di più piacevole – ci si deve credere. L’eventualità concreta di andare all’altro mondo non la temo affatto, anzi direi che è attesa con una certa impazienza. Non si tratta del classico rifiuto della vita dovuto magari a una sopraggiunta crisi esistenziale e non penso neppure di essere uscito di senno; la sorte nonostante tutto mi ha dato moltissimo, sarebbe l’unica maniera per continuare un viaggio fantastico incominciato tanti anni or sono e mai terminato. Quale persona sana di mente aspetta e desidera la morte, sapendo bene che è una delle poche certezze della vita? Lo so bene, ma è difficile comprendere ciò che voglio raccontare senza conoscere dal principio la mia storia, che è tanto unica quanto rara poiché nessun’altra persona al mondo ha vissuto lo stesso.


Oltre l’ombra di un sogno


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Spinosa

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Massimo Zibordi

Spinosa

Racconti da un mondo perfetto

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Spinosa. Un libro vivace, ironico e autentico che racconta la vita nella campagna mantovana negli anni Cinquanta, ma non si tratta di una semplice autobiografia; il linguaggio è arricchito dall’esperienza poetica dell’Autore, che si fonde perfettamente con la prosa.
A Spinosa la povertà non intacca l’intelligenza o la dignità. I ragazzini apprendono una pedagogia fatta di terra e fossi, senza bisogno di manuali. La religiosità è spontanea e tutto è un gioco, un’intesa ideale tra uomini e natura.

«La sera infilava un’altra moneta rosso acceso nella fessura in fondo all’orizzonte, mentre l’acqua nei fossati parlottava amabilmente dei fatti del circondario».


Quarantadue racconti che fanno riflettere sulla vita, sulla natura e sulle sirene del progresso. Ci si sentiva al centro dell’universo in quella piccola borgata. Si diventava grandi ma senza averne ancora la scorza; e i grandi, si sa, tradiscono sempre i bambini. Ci si credeva invincibili, il vero nemico si sarebbe rivelato il tempo e nessuno si sarebbe salvato.


Biografia di Massimo Zibordi

Copertina Spinosa

Spinosa di Massimo Zibordi

Presentazione

C’è un passo che mi intriga, breve, brevissimo, nelle pagine di Spinosa. Si trova nel racconto Il martin pescatore, là dove il volatile sembra proporre all’adolescente Marco alcune suggestioni straordinarie: il ragazzino si accorge che negli occhi del martin pescatore risiede «la magia di lontanissime e precise rotte migratorie» e poi viene dallo stesso messo in guardia: le sirene talvolta imbrigliano la mente ai nocchieri e con il loro canto ne confondono la rotta.
Sono due originali metafore di molte (tutte?) storie presenti nella raccolta. Incominciamo dalle remotissime rotte migratorie. Non di migrazioni geografiche si tratta ma di affioramenti lontanissimi e tuttavia meravigliosamente precisi, partiti dagli anni Cinquanta e giunti fino a noi. Sessant’anni di “movimenti migratori” (si intenda qui la vita trascorsa da Massimo) non hanno alterato la magia di quel mondo perfetto, ce lo restituiscono invece come se stesse scaturendo da una limpidissima sorgente di montagna posta ai piedi di un nevaio. Quelle donne e quegli uomini, quei cani da ferma e i loro allenatori e veterinari, quelle abitudini e quelle credenze han fatto un loro percorso, han compiuto una precisa migrazione che nello stesso tempo ne ha mantenuto vivissima la matrice ma le ha risuscitate a un livello ove la storia lascia il posto all’etica. Il loro movimento, la loro migrazione, non è carsica, non è tribolata, ma si propone a noi con una trasparenza eccezionale, con i colori nitidi di una giornata luminosa dopo una notte di vento; gratifica il lettore che vi ritrova una vivacità, un’ironia e un’autenticità che sì, davvero, rimandano a un mondo perfetto che è quello dell’infanzia a Spinosa.
E poi ci sono queste sirene che nutrono da sempre l’insano desiderio di smarrire i nocchieri. Rischio eterno, tentazione costante ma lecita, ché solo chi si smarrisce può infine ritrovarsi. E tuttavia a Spinosa, in quel mondo terragno e plastico dove la legge prima – quella più importante – non è scritta nei codicilli di volumi enormi ed ermetici ma dentro il cuore delle persone, le sirene ci sono anche per giovani e giovanissimi; esse tentano, come dice il martin pescatore, di far smarrire la strada ma senza avvedersene la insegnano. Ché non solo l’Autore, ma tutta la folla che egli racconta, se di smarrimenti ne ha avuti, sempre alla fine si è ritrovata.
Con questo mi pare di aver sottratto Spinosa alla pur straordinaria bellezza della rievocazione autobiografica per consegnarlo a un livello ove ogni gesto, ogni parola, ogni episodio, ogni presa di posizione, perfino ogni cane e ogni gatto, assurgono – senza che mai l’Autore abbia bisogno di salire in cattedra – a massima comportamentale universale.
Ecco perché mi piacciono le sue memorie. E anche perché ci sono in quelle storie mille altre cose che appartengono a una quotidianità genuina, semplice, nostra. L’elenco è lunghissimo, inesauribile: il mozzicone dell’Alfa che pende dall’angolo della bocca; il cappello di paglia della Vitasol; il tirar su con il naso; il budino San Martino; il rosario; il lardo; Rin-tin-tin; la camera d’aria che non finisce mai di servire; il pane con lo zucchero; il secchiaio; perfino gli orinali… E dentro questo mondo, noi (consentimi Massimo di entrare anch’io, lateralmente, nelle tue storie).
C’è poi un linguaggio che – ora qui ora là, senza darlo a vedere, con le sole parole, senza immagini o altri ausili – si fa forte dell’esperienza poetica, non estranea a Massimo, e che qui con la prosa va a braccetto: «La terra, insaziabile come ogni sera, ingoiava un sole infuocato»; «nel riflesso frantumato della luna»; «nella genesi del mattino». E poi la neve che «scendeva lieve come una preghiera» e il sole che allunga «un sipario d’ombra» e le «chiassose risate dei fossi», e Dio sa quale timbro avevano per Massimo quelle risate. Ascoltiamo le parole. Hanno bisogno, almeno qualche volta, di accostarsi come vogliono loro, senza regole, o come i poeti saggi o capricciosi le costringono a fare. Fa bene avere un corpo a corpo con le parole, a chi scrive e a chi legge.
C’è una povertà a Spinosa che non intacca né l’intelligenza né la dignità. C’è una pedagogia senza manuali fatta di terra e di fossi. C’è una religiosità spontanea e confidenziale, così come compare nell’ultima riga del racconto Il chiodo della Madonna: «Tra madri certe cose non hanno bisogno di commenti». E le due madri, poste su uno stesso piano che nulla ha di sacrilego, sono la madre naturale e la Madonna: bellissimo!
Ci sono tutte queste cose e molte altre ancora nei racconti, che è come dire in Spinosa, che è come dire nel libro. Perché Spinosa e il libro si identificano, ontologicamente non figuratamente intendiamoci.
Ecco perché mi piacciono i racconti di Massimo.

Aldo Ridolfi
Tregnago, 1° maggio 2021.


Spinosa


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