La bolla di Yahya

L. Barsotti, "La bolla di Yahya"
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Luca Barsotti

La bolla di Yahya

Una storia in bianco e nero

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La bolla di Yahya. Continenti diversi, pelli diverse: una bianca, un quasi cinquantenne con i pensieri complicati e la vita densa di viaggi, relazioni, scelte e cambiamenti; l’altra nera, un ragazzo poco più che ventenne con i pensieri semplici, quasi lineari, e la vita costruita sulla propria pelle, facendosi largo con fierezza.
Un amore forte, ma anche ingestibile per entrambi e con il sempre più impellente bisogno di uscirne indenni e accettarsi come persone nuove e amabili.

L’edizione digitale inoltre include Note e Capitoli interattivi, Notizie recenti sull’autore e sul libro e un link per connettersi alla comunità di Goodreads e condividere domande e opinioni.


Biografia di Luca Barsotti

L. Barsotti, "La bolla di Yahya"

La bolla di Yahya di Luca Barsotti

Sympathy for the Devil

Radersi, per me, è un po’ come la cerimonia del tè: esige una serie di azioni preordinate; un metodo imparato con l’esperienza di migliaia di lamette, di schiume e dopobarba (rigorosamente senz’alcool, per carità!)e di barbieri sparsi per i quattro continenti che ho visitato.

Quando mi rado, in genere, sono in accappatoio, appena uscito dalla doccia, che i pori sono più dilatati, la pelle più morbida e il rasoio scivola meglio sulle forme spigolose del mio viso. Metto in modalità random il mio database di musica e ascolto il primo pezzo della giornata; che sia Paolo Conte o gli AC/DC, quello sarà l’imprinting.

Stavo cercando di interpretare il segno distintivo di quella canzone – era Sympathy for the Devil dei Rolling Stones – e, al di là del suono accattivante e il ritmo serrato, continuavo a chiedermi se il diavolo fossi davvero io.

La schiuma era già uniformemente distribuita sulla superficie da radere e mi guardavo negli occhi della mia immagine; ogni tanto lo sguardo scivolava inconsapevolmente verso il centro della fronte, in mezzo alle sopracciglia, dove quella che io chiamavo la ruga del Sahara faceva bella mostra di sé, l’unica verticale. E subito, sicuramente con più consapevolezza, l’attenzione scattava via a seguire di nuovo il movimento della lama che trascinava con sé il soffice strato di (zucchero filato? nuvole?) schiuma, lasciando una scia di pelle nuda.

Ruga del Sahara perché, improvvisamente, dopo aver passato tre giorni e due notti in quel deserto fra furgoni che trasportavano pesce, carri attrezzi, pullman stracolmi di persone; dopo aver guidato controsole per ore con il parabrezza che diventava uno specchio e bisognava sporgersi dal finestrino… ecco che si presenta quel solco, con la sua aria imperativa, a ricordarmi che la mia pelle non è più elastica come a vent’anni.

Perso nello specchio dei miei occhi.

Il mio smartphone emise un segnale. Le notifiche erano impostate tutte con lo stesso suono (devo cambiare questa cosa…); fosse un tag di Facebook, un sms o quella chat di incontri sulla quale non ho mai conosciuto nessuno di interessante, nessuno che alzasse un minimo lo sguardo (quello mentale, intendo) quei cinquanta centimetri necessari per vedere la mia testa e ciò che contiene.

Avevo accettato, l’anno prima, di incontrare uno dei frequentatori di questa chat; qualche parola scambiata – celati dal cono di luce che irradiava dal display dei nostri computer – qualche messaggio su WhatsApp, un paio di telefonate.

In quel periodo mi muovevo fra Padova, Pisa e Genova a montare stand nei mercati di Natale; vivevo una relazione a distanza con un brasiliano con il quale avevo passato l’estate in Sardegna ed entro pochi giorni mi sarei stabilito per tutto il mese a Genova: dovevo trovarmi un passatempo.

Un ragazzo. Giovane. Meglio se straniero, con la pelle scura e l’accento esotico.

Dunque incontrai colui che avrei ribattezzato il mio Negrito: ecuadoriano, venticinque anni, pelle liscia e vellutata, con quei peletti ben distribuiti sul petto, i capezzoli scuri e un culo da mordere e sculacciare.

La prima volta ci incontrammo davanti all’ingresso dell’acquario, dove c’è la biglietteria. Arrivò a passo svelto, con la borsa a tracolla e la sua bocca grande. Pizza, passeggiata lungo i moli del porto vecchio; io avevo già prenotato la stanza in un hotel che, come avevo previsto, usammo poco più tardi.

Per tutto il mese, quasi ogni sera, uscivamo e scopavamo.

Potevamo andare al cinema (con i biglietti che lui, orgogliosissimo, si procurava alla reception dell’albergo dove lavorava come facchino) o a mangiare una pizza (Non hai mai neanche fatto il gesto di pagare il conto. Neppure una volta. Nemmeno a Firenze, a Capodanno, quando la mia carta era scaduta e stavo finendo i contanti…) o semplicemente un aperitivo (che inevitabilmente si trasformava in due o tre, con annessi salatini e focacce). Ma una cosa era sicura: dopo avremmo scopato, brutalmente, dolcemente, con i fuochi d’artificio o in qualsiasi altro modo, ma avremmo scopato.


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Cristiano Pedrini

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Il piano inferiore. «Può un pesciolino domare uno squalo?». Per Charles Spencer Hoynes la risposta a questa domanda arriverà dopo l’incontro insolito e fortuito con Mathis Owen, un giovane avvocato fresco di laurea. La sua presenza lo costringerà ad ammettere che oltre ai suoi metodi spregiudicati può esistere anche un altro modo di vivere la sua professione, opponendosi con pazienza, perseveranza e con voce gentile alle ingiustizie.
Immersi in una candida Washington imbiancata dalla neve, i due giovani impareranno che non sempre è facile amarsi e accettarlo, può far paura. Ma sotto la neve e alla vigilia del magico Natale, tutto può essere possibile!

L’edizione digitale inoltre include Note e Capitoli interattivi, Notizie recenti sull’autore e sul libro e un link per connettersi alla comunità di Goodreads e condividere domande e opinioni.


Biografia Cristiano Pedrini

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Il piano inferiore di Cristiano Pedrini

Catapultato in paradiso?

Quattro anni di università chino su libri e dispense, innumerevoli notti insonni, una lista interminabile di fine settimana sacrificati e molte occasioni sfumate. Ecco riassunto in poche parole il risultato della carriera studentesca di Mathis al quale aggiungere due anni di specializzazione e il superamento dei test della scuola di legge e, infine, quell’unico ma fortunato stage in uno studio legale, quello di Horace Hasting, un caro amico di famiglia che si era offerto di fargli muovere i primi passi nel mondo dell’avvocatura.

«E ora eccomi qui» commentò ad alta voce Mathis, fissando quello stanzino nel quale avrebbe voluto morire e lasciare il suo epitaffio sostituendo quella targhetta di cartone appesa precariamente con del nastro adesivo accanto alla porta. Chi l’aveva scritto perlomeno non aveva sbagliato il suo nome, Mathis Owen, anche se aveva usato un discutibile color verde.

«E ora cosa racconterai a tua nonna quando ti chiederà del tuo primo giorno di lavoro?» chiese poggiando le spalle alla parete e rivolgendo lo sguardo al lungo corridoio illuminato da alcune lampade al neon che irradiavano una luce spenta dove, sul fondo, intravedeva la rampa di scale dalla quale era sceso pochi minuti prima.

La sua lunga discesa verso gli inferi… letteralmente e realmente parlando.

Quel magazzino che a giudicare dalla polvere sparsa un po’ ovunque non era molto frequentato, era l’ultimo angolo vivibile del palazzo. Si tolse dalla tasca dei pantaloni il biglietto che aveva ricevuto nell’atrio dove era scritto il numero di piano e della stanza. Ecco il suo benvenuto in quell’elegante palazzo, in una fredda mattina di dicembre. Un benvenuto anonimo e che aveva immaginato assai diverso.

Strinse il biglietto nella mano, chiuse gli occhi e batté ripetutamente il capo contro la parete prima di desistere pensando che un mal di testa non avrebbe migliorato la sua situazione.

Varcò la soglia del suo ufficio avvicinandosi alla scrivania di legno che, a giudicare dal suo piano, aveva visto seduti dietro a essa generazioni di avvocati, probabilmente tutti passati a miglior vita. Posò la sua valigetta accanto a una lampada d’acciaio. Una pila di cartellette vuote e un portapenne di plastica altrettanto vuoto, erano le uniche cose che vedeva.

Fu la vista di quel grande scaffale che arrivava fino al soffitto, carico di libri, tutti con la copertina di color marrone chiaro, che attirò la sua attenzione. Si avvicinò e ne sfilò uno. Gli bastò sfogliare le prime pagine per accorgersi che si trattava di raccolte di leggi. Lesse la data di stampa impressa sul frontespizio. «1909… Ne avete di anni» sorrise il ragazzo alzando lo sguardo verso i ripiani superiori.

«Voi sarete utili ma… – sospirò ritornando alla scrivania – senza un computer come pensano che debba lavorare?» si domandò grattandosi il capo.

«Te lo porteranno entro sera» sentì pronunciare alle proprie spalle.

Mathis si voltò repentino trovandosi davanti a un uomo di mezza età che stava spingendo all’interno il carrello delle pulizie.

«E lei chi… chi è?» balbettò il giovane.

«Colui che occupava questo posto fino a ieri e che ora dovrà trovarne un altro per la sua pausa pranzo» rispose l’uomo togliendosi un berretto sudicio con l’emblema della Nasa, mostrando una prospiciente calvizie.

Si asciugò la fronte ampia con il suo fazzoletto prima di sedersi nell’unica sedia davanti alla scrivania.

«Beh, mi spiace averle guastato i piani» obiettò Mathis oltrepassando il mobile, aprendo i cassetti per appurare se fossero vuoti, trovandoli sporchi.

«E tu che cosa ci fai qui?»

«Ci lavoro, mi hanno assunto oggi» rispose il ragazzo.

«Tu saresti un avvocato?» rise l’uomo.

«È così divertente?» osservò Mathis battendo nervosamente le dita sul piano della scrivania.

«Quanti anni hai?»

«Ventitré, perché?»

«Curiosità. Te ne avrei dati diciassette, forse diciotto» sorrise l’altro, prendendo dal piano del carrello un sacchetto. Estrasse una ciambella e ne addentò un pezzo. «Ne vuoi una?» chiese porgendogli sbrigativamente la busta.

«No, grazie. Ma visto che lei è qui potrebbe approfittare per ripulire la mia scrivania.»

«Sono in pausa, tuttavia… – rispose l’uomo lanciandogli uno straccio dal ripiano inferiore del carrello – puoi provvedere tu stesso e se vuoi dello sgrassatore…» aggiunse, indicando un flacone che conteneva un liquido biancastro.

Mathis lo afferrò svogliatamente. Ne spruzzò una dose abbondante sul piano del tavolo e vi passò energicamente il panno. «Grazie, signor…?»

«Theodore, come Roosevelt» gli disse, masticando con gusto l’ultimo boccone. «Ti piaceva?»

«Chi, Roosevelt?» replicò il ragazzo.

«Ho letto diverse sue autobiografie. Era un tipo molto deciso e capace. Mi piaceva, anche se tu magari non sai neppure chi fosse.»

«So benissimo chi era» obiettò Mathis, fissandolo malamente.

«Oh, scusa… Sai, tutti i ragazzini come te, cresciuti a pane e smartphone, sanno poco o nulla della nostra storia.»

«Non io» sospirò il ragazzo.

«E come pensi di dimostrarmelo?» lo sfidò Theodore, incrociando le braccia al petto.

Mathis tolse dalla tasca della giacca il suo telefono e lo posò sulla scrivania attendendo una reazione che non sarebbe di certo tardata. Vide Theodore allungarsi verso il mobile fissando quell’oggetto con evidente curiosità.

«Cos’è quest’affare?»

«Un telefono» rispose Mathis allargando le braccia.

«Mai visto una cosa simile…»

«È un vecchio Nokia. Serve solo per telefonare e scambiarsi sms, tutto qui.»

Il piano inferiore


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