Mike Papa
Decalogo semplice
Edizione cartacea
Edizione digitale
Decalogo semplice. Dieci episodi di vita di Rocco Raspa, un semplice imbianchino protagonista suo malgrado di situazioni comiche, drammatiche, surreali. Popolano i suoi giorni vari personaggi talmente improbabili da risultare veri, a cui il lettore non potrà fare a meno di affezionarsi. Mike Papa ha la capacità di descrivere una quotidianità che disorienta, tratteggiando un’epica ridda di antieroi.
Leggendo queste storie possiamo trovare un senso di già vissuto, odori e sapori già sentiti, probabilmente mentre eravamo impegnati a vivere.
Questa edizione digitale inoltre include Note e Capitoli interattivi, Notizie recenti sull’autore e sul libro e un link per connettersi alla comunità di Goodreads e condividere domande e opinioni.




Decalogo semplice di Mike Papa
Primo
L’incubo in cui ero rimasto invischiato venne lentamente sopraffatto da un suono noioso e insistente che si insinuò a sorpresa nella nebbia rossa che mi circondava, una nebbia dello stesso colore e della stessa densità del sangue dentro la quale mi sarei senz’altro perso se il fastidiosissimo dirididing della sveglia non mi fosse venuto in aiuto con tempestività tipicamente svizzera. Fa niente se il cubo da quattro soldi con tre lancette e una suoneria impossibile aveva bene impresso sul fondo la scritta «Made in Korea»: la precisione è precisione.
Annaspando tra il sonno e la veglia, con ancora appiccicata addosso quella melma rossa, riuscii a trovare e schiacciare il minuscolo bottoncino che poneva fine alla musica spaccapalle. Fa niente se nell’operazione il cubo di plasticaccia cadde sul pavimento e si aprì in quattro: il silenzio è silenzio.
Me lo gustai per due minuti, il silenzio.
Mi sarei volentieri rigirato nel letto per un’altra mezz’ora valutando l’entità del mio mal di testa e lasciandomi asciugare addosso il sudore che mi copriva come un gelido sudario.
Questi cazzo di incubi! Non lo vogliono capire di lasciarmi in pace, sciaddìo! No, invece sempre peggio. E sempre più spesso, per giunta! Ma ci vado, sai? Ci vado da uno strizzacervelli. Prima o poi.
Tutte le mie riflessioni furono interrotte da Babbo, che venne a reclamare la colazione a furia di graffi e miagolii struggenti.
«Va bene bastardo, adesso mi alzo. Tu vai a preparare la colazione, intanto. Marsch!» gli dissi mettendomi a sedere sul letto e poggiando i piedi sul pavimento deliziosamente fresco.
Partì con buon passo verso la cucina ma mi sembrò abbastanza improbabile che mettesse la caffettiera sul gas, se non altro perché non aveva ancora imparato ad aprire il rubinetto del metano e dato che lo chiudevo in maniera quasi maniacale tutte le sere…
Mi guardai attorno. Il letto sembrava un campo di battaglia: le lenzuola erano attorcigliate tra loro e buttate in un fianco, il coprimaterasso sfoggiava svariate rose di sudore.
Appunto mentale per Rocco Raspa: informarsi su un dottore; e, cazzo!, comprare una nuova sveglia aggiunsi quando una scheggia di plastica mi punse la parte molle del piede.
Agguantai le infradito e mi trascinai fino allo stereo aprendo la bocca in uno sbadiglio cosmico.
Dalla cucina mi arrivò la risposta di Babbo: forse la colazione era pronta.
Un cd era già inserito e premendo il tasto play riconobbi la musica soft con la quale mi ero addormentato. Niente di più sbagliato: lunedì mattina, ore sei, ci voleva qualcosa di più cattivo, magari un blues di quelli duri e tirati.
Eccolo qua: Stevie Ray Vaughan.
Babbo si avvicinò e approvò la scelta facendo le fusa e strusciandosi tra le mie gambe. Ma forse aveva solo fame.
Ciabattai in cucina al ritmo di Pride and joy, tirai fuori dal frigo semivuoto la scatoletta di carne per il mio coinquilino e ne versai una dose abbondante nella ciotola su cui avevo scritto con vernice rossa: pappa di babbo.
Dopo due minuti la ciotola era vuota e Babbo emetteva un sonoro rutto. I gatti ruttano? Non so gli altri, ma il mio sì. D’altronde non era certo un gatto normale, non fosse altro perché viveva con me.
Mentre aspettavo che uscisse il caffè ripassai mentalmente ciò che mi attendeva: Villa Alleva. Sembrava uno scioglilingua: arriva a Villa Alleva e leva la lava e lava la lana… e la rava e la fava…
La dimora era di nuovo occupata, finalmente. Era un vero dispiacere quando ci si passava davanti e si vedeva che stava andando tutto in malora. Eppure era una villetta niente male: isolata ma non troppo, due bei piani, un vasto giardino e pini secolari tutto intorno.
E poi avevo un legame affettivo con quel posto, non solo perché era vicino alla cascina dei nonni nella quale avevo vissuto per qualche anno da piccolo, ma soprattutto perché in una delle sue stanze avevo perso la verginità grazie a una mulattina che si chiamava… sì, vatti a ricordare! Il fratello era Armando e frequentavamo la stessa scuola, ma lei… come cazzo si chiamava? Un nome esotico forse, tipo…
Cazzo, qui non ci vuole solo uno strizzacervelli ma anche uno specialista in memoria! Dimenticarsi così di Vanessa!
Eccolo, alleluia! Vanessa! Vanessa la diavolessa!
Intanto mi ero scottato la lingua con il caffè bollente, sciaddìo!
Quando zio Nello, che da tempo aveva assunto a pieno titolo il ruolo di mio manager, mi aveva parlato di quel lavoro, non aveva saputo dirmi un granché ma si era soffermato sul fatto che la villa era stata acquistata da un’attrice: «Non ricordo il nome, quindi senz’altro non è Sophia Loren, ma è un’attrice. Cazzo, che ci fa un’attrice nel Buco del Culo del Mondo?».
La colorita espressione definiva in maniera perfetta il paese dove vivevamo, un pugno di case buttate su una collina dove l’ultimo fatto degno di nota si era verificato nell’a.D. 1303. Da allora l’oblio, la noia, l’abbandono, il niente…
Ma ci vado, sai? Ci vado via prima o poi da questo mortorio. Prima o poi…
Bevuto il caffè mi sedetti sul trono, dopo aver acceso la prima sigaretta delle quasi quaranta che avrei fumato fino a sera, e mi misi a fantasticare sulla famosa attrice: già la vedevo innamorata di me al primo sguardo e io che andavo a vivere in villa passando il tempo a non fare un cazzo.
Sogna Raspa, sogna… Attento al risveglio, però.
Per andare a fare la conquista che avrebbe dato una svolta positiva alla mia vita mi agghindai con una salopette pulita, T-shirt bianca e scarponcini pesanti da fatica. Misi dentro lo zaino un paio di scarpe da ginnastica, casomai gli scarponcini mi avessero fatto venire i calli; una camicia di flanella per la sera che di solito in quel periodo era sempre un po’ più fresca; un paio di panini per pranzo che avevo preparato la sera prima – o addirittura sabato? – e la pistola, dopo aver verificato che ci fosse il caricatore pieno, il colpo in canna e la sicura inserita.
Decalogo semplice
Decalogo semplice
Decalogo semplice